PIZ DE LA LUMBREIDA – VALLE MESOLCINA
domenica 18 febbraio ‘24
Picchio lo scarpone contro la neve ma qualcosa non va. Guardo in basso e il rampone penzola dalla caviglia col suo laccetto bicolore. Merda! Fortuna che dopo il Breitstock l’avevo anche regolato! Vado avanti come lo storpio, confidando che, tirando calci come fossi uno zappatore in una partita a pallone, lo scarpone si crei lo spazio sufficiente per restare appiccicato alla parete. Muovo quindi un po’ di passi e poi un altro rumore metallico mi fa saltare per un attimo i nervi. Guardo lo scarpone destro: anche lì ho un nuovo pendaglio coi denti ferrati! Merda al quadrato! Il primo pensiero è che dovremo tornare indietro: o forse io dovrei farlo, la Laura potrebbe proseguire, superare i pochi metri che ci mancano, farsi abbracciare da Quintino e dagli altri padri baffuti del Caianesimo e quindi ritirare il pacco aggiornato di bollini. Io me ne staro più in basso a rodere e maledire la coppia di ferri che, almeno in questo momento, hanno finito di spassarsela col sottoscritto: appena a casa, penserò a come rifilarli a qualche allocco. Poi però c’è l’esame di coscienza, il momento della messa in discussione: perchè dovrei fare abbracciare la mia ragazza da una schiera di vecchi bavosi arrapati? Saranno pure i Padri Fondatori ma c’è un limite a tutto! Così mi metto a fare il mulo (che mi viene anche bene): cocciutaggine e calciate vigorose sono due caratteristiche imprescindibili, finchè mi trovo davanti ad un saltino impestato tra roccia e neve ghiacciata. Forse potremmo anche superarlo ma poi in discesa? Provo immediatamente a sinistra ma nulla: la neve verticale e inconsistente crolla sotto il mio dolce peso e, a momenti, rischio di fare strike con la Laura. Mi guardo attorno e la soluzione viene fuori perchè una scappatoia di solito la si trova sempre, a volte basta solo ingegnarsi. Torniamo indietro di una manciata di metri e poi iniziamo a traversare a destra. Il traverso è un po’ sempre la soluzione di tutto: la storia caiana lo insegna! Ora la via per la cima è spianata: risaliamo il pendio soprastante, poi le ultime roccette e quindi ancora neve dura ma, fortunatamente, appoggiata. E pensare che l’idea del Lumbreida è stata da un lato l’alternativa ad una cima in Valtellina che ha perso la partita perchè “si sa quanto tempo ci vuole ad arrivarci ma mai quanto se ne impiegherà per tornare a casa” e, dall’altro, l’opportunità per chiudere i conti dopo l’Uccello. C’è poi da considerare che due fine settimana di magra hanno reso la Laura ancora più assetata di Caianesimo così ci ritroviamo di buonora a lasciare per l’ennesima volta san Bernardino che quest’anno sta un po’ diventando come la val Bedretto dello scorso inverno. I pendii iniziali sono meno leopardati della volta scorsa o, se vogliamo, il dalmata è più bianco che nero e poi la Laura viaggia come il Frecciarossa mentre il sottoscritto è rintronato: sento la testa imballata come se fossi appena sceso dalla giostra tanto che qualche dubbio sul fatto che riusciremo a raggiungere la cima ce l’ho. Eppure, la Laura tira: mettiamo nel mirino i caiani che abbiamo davanti e, poco prima della baita all’inizio del vallone, li travolgiamo con la nostra foga. Davanti l’orizzonte si allunga in falso piano, superiamo l’Uccello e poi i pendii del Cavriola per cui oggi non abbiamo alcun interesse: abbiamo ben altro cui pensare, noi! Dietro, non c’è più anima viva mentre l’unica presenza umana è data dalle tracce che fortunatamente ci indicano la strada: siamo completamente soli sulla montagna, una delle situazioni che preferisco. Intanto le mie condizioni da stralunato proseguono (è come se la Laura avesse aggiunto del grappino al mio tè mattutino ma sorvolo e non indago ulteriormente) finché riprendiamo finalmente a salire e, contemporaneamente, a tornare indietro. Già perché il Lumbreida è una di quelle cime che, prima di raggiungerle, bisogna fare avanti e indietro e, superata la boa, è come se il mio interruttore scattasse. Quello della Laura, invece, è bloccato nella posizione “acceso” e, quando siamo davanti all’ultimo salto all’ennesima domanda su quale sia la cima e avendogliela nuovamente indicata, scatta in avanti sfruttando la mia sosta per un cambio d’assetto reso necessario dalle temperature equatoriali che registro sotto il pile. È un po’ come se stessi pagando solo ora il dazio per la mia oramai antica zampata del giro scozzese. Così arriviamo al deposito degli sci e alle vecchie tracce che, come certe incisioni mezze cancellate dal tempo, ci indicano la strada da seguire. Partiamo così alla volta della cima, lotto con i ramponi e la neve e poi, finalmente, ci troviamo sul crinale finale. Mi sembra di essere come Aldo, Giovanni e Giacomo: abbiamo scelto la strada difficile mentre, dall’altro versante, il pendio sale ampio e dolce e la vetta è un pianoro che si allunga a destra e a sinistra. Poco importa: ci troviamo sul punto più alto dove godiamo del panorama e del cielo lattiginoso prima di tuffarci nuovamente sul lato scuro.
Cavallo Goloso
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