racconto del pizzo uccello, valle mesolcina (grigioni)


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PIZZO UCCELLO – VALLE MESOLCINA

domenica 28 gennaio ‘24


Qualche perplessità ce l’ho ma, primo, non lo do a vedere (anche perchè involontariamente soffoco quella vocina che cerca di mettermi la pulce), secondo l’idea del Lumbreida mi appanna la vista come quando si soffia sul vetro. Dopo il Breitstock forse è il caso di tirare un filo il freno o, almeno, non pigiare ancora sull’acceleratore, così propongo una gita che non dovrebbe avere particolari difficoltà tecniche. Ma l’Elisa fa un po’ come il Gatto e la Volpe col campo dei Miracoli e la Laura, oramai dovrei averlo capito, fa il Pinocchio della situazione: consegna il sacchetto di monetine, l’Elisa sparisce dai nostri schermi e noi ci ritroviamo con l’idea di salire il Lumbreida che ci si appiccica sopra come una colata di miele. Poco importa se i pendii appena sopra san Bernardino siano spelacchiati un po’ come la mia testa dopo il passaggio sotto la falce del parrucchiere. Noi partiamo lo stesso e poi si vedrà! Usciamo dal paese e poi dal rimasuglio di alberi che lo sovrasta per trovarci davanti ai pascoli soprastanti. La neve è un po’ come le macchie del dalmata e noi giochiamo a Twister con gli sci per cercare di evitare ora una pietra, ora un cespuglio oppure un’isola d’erba. Diciamo che il rebus ha un suo lato divertente se almeno si ha una certa perversione per praticare lo sci costi quel che costi. La Laura forse è un po’ meno contenta. Diciamo che è quasi come quando scopro che il vasetto di gelato in congelatore è praticamente vuoto. Solo che in quel caso l’artefice è molto probabilmente sempre il sottoscritto. Così mi ringrazia sulla scelta della gita con dolci parole che qui è meglio non riportare, sul fatto che si sarebbe potuto fare altro e bla, bla, bla. In fondo la colpa è dell’Elisa e a lei rimando i ringraziamenti per poi continuare col mio scarica barili sottolineando che non sono un indovino e, soprattutto, le condizioni del pendio le avremmo potute vedere entrambi. In ogni caso, siccome siamo due muli (nel senso della cocciutaggine), non troviamo niente di meglio che proseguire fino alla baita dove la vallata inizia ad addentrarsi e la neve ad essere l’elemento preponderante. A quel punto le nostre strade si dividono. A sinistra sale la traccia per l’Uccello, diritta va quella per Lumbreida. I nostri sogni di gloria svaniscono di fronte all’evidenza: il campo dei Miracoli non esiste e a noi crescono due bei paia di orecchie pelose. D’altra parte volare alto è sempre positivo, l’importante poi è non schiantarsi al suolo e, su questo, direi siamo abbastanza bravini. - Tentiamo l’Uccello? - la proposta non mi fa sprizzare di gioia ma, d’altra parte, è la cosa più sensata da fare anche se, a dirla tutta, avrei barattato il volatile con un salto al Cavriola. Evidentemente però quello deve starsene solo soletto lassù e noi finire solo per orbitarci attorno. Così risaliamo il pendio che ci sovrasta mentre facciamo a gara con un gruppo di giovani caiani che giocano, appunto, a fare i giovinastri salendo con l’andamento del bruco: a molla. È una continua sequenza di strappi: ci raggiungono a manetta, ci superano a velocità siderale e poi si fermano. Noi li agguantiamo nuovamente, li risuperiamo e il siparietto continua finché questi deviano alla sella a destra della cima. - Dove vanno? Cosa fanno? - - Boh… ci sarà un canale che scende da quelle parti… - osservo mentre li vedo calarsi nel vuoto. Altro materiale per potenziali golose scorpacciate di bollini? Per il momento non ci penso: guardo gli ultimi metri del pendio che ci portano al crinale conclusivo. Dovremmo infilare i ramponi, sbatterci un po’ per raggiungere la cima vera e propria ma, praticamente, sono solo metri lineari. Certo, la vetta è quella ma considerando che 2 o forse 300 metri più in basso eravamo sul punto di fare dietro front, direi che possiamo considerarci più che soddisfatti. Così iniziamo a scendere dal bel pendio con le parole dell’uccello del malaugurio Stiggia che mi rimbombano come in una cassa di risonanza: “neve di merda” era stata la sua sentenza lapidaria poche settimane fa. In realtà nonostante non siamo nemmeno lontani parenti di Toni Valeruz, fino a poco sotto la baita, la sciata si rivela come un’inaspettata quanto deliziosa portata che poi, tutto sommato, prosegue anche sul tratto leopardato dove riusciamo fortunosamente a fare come quel gioco della Settimana Enigmistica dell’unire i puntini.


Cavallo Goloso


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domenica 22 marzo ‘15


Potrei essere ovunque, anche nel bosco dietro casa. L’unica certezza che sono in cima è l’ometto di pietra su cui mi sto appoggiando per la classica foto alla Fabio, per il resto sono circondato da un totale e opprimente grigiume: il cielo è grigio, la parete che precipita a picco verso nord è grigia e anche la neve ha lo stesso colore livido. E pensare che fino ad una manciata di ore prima non sapevo ancora dove sarei andato.

Tutto inizia già mercoledì con la plastica: mi sento una chiavica, impedito anche a chiudere da secondo un fottutissimo 6a con una specie di lancio spallata che proprio non riesce a venirmi. Poi salta fuori un’ideuzza che va a gambe all’aria una volta viste le previsioni e con essa ogni sogno di caianesimo extreme. Il cambio viene quindi buono per la falesiata del sabato al Lariosauro dove la mia forma non si mostra poi così malandata come avevo inteso. Resta però il fatto che rimango con un certo senso di svogliato amaro in bocca: da un lato domani vorrei combinare qualcosa che ricordi una sana lotta caiana, dall’altro non ho la motivazione per sentire la sveglia chiamarmi e così carico un po’ di tutto in macchina, vado da Micol e aspetto che il mio corpo decida di alzarsi. Sotto certi aspetti sono fortunato: mi sveglio alle 7, senza bisogno del trillo del cellulare, dall’altro però, quando anche potrei ronfare beatamente, mi ritrovo con gli occhi sgranati a fissare il soffitto. Mi alzo, decido la meta, quindi saluto Micol e mi avvio verso il san Bernardino con cielo coperto ma senza pioggia. La notte invece ha nevicato, 10 o 15 centimetri, comunque sufficienti per cancellare i segni più evidenti della siccità. Lascio quindi l’auto e inizio a salire leggero: niente cibo, solo una bottiglia d’acqua e il necessario per coprirmi più la pala di dubbia utilità visto e considerato che sono da solo. Rapidamente lascio dietro le code il bosco e quindi la linea elettrica entrando poi nella vallata da cui si erge lo slanciato pizzo: la visibilità è buona anche se in alto le cime sono nascoste da un cappello calcato forse troppo pesantemente.

Mentre quindi i metri si sovrappongono uno sull’altro, altri tre temerari entrano nel mio mirino, rincuorando e stimolando il mio solitario incedere. Vista l’estrema e divagante calma con cui i battitori aprono la traccia, ho vita facile nel raggiungerli alla base del pendio finale; un sorso d’acqua, uno sguardo alla carta e poi riprendo a battere nella neve intonsa. Mi muovo a naso, ricordando dove si trova la vetta e avendo ben in mente gli scivoli rocciosi che precipitano dalla cima e cercando quindi di indovinare dove la pendenza sia meno pronunciata. Solo che l’indovino non è proprio il mio lavoro tanto è vero che ad un tratto ho la sensazione di essere già sul filo di cresta mentre in realtà mi trovo solo su un piccolo pianoro! Continuo quindi a buttare le punte verso l’alto finchè finalmente il pendio smette di salire e io, lasciati gli sci, inizio a traversare verso sinistra, ben sapendo che in quella direzione troverò l’agognata cima. Procedo quindi lungo la cresta sostanzialmente piana fino ad andare a sbattere contro l’ometto di vetta: mi guardo intorno ma sono al centro di una tela completamente grigia e uniforme, l’unico neo rappresentato da quel mucchio di sassi. Resto quindi il tempo di una foto e poi ritorno agli sci. La neve sembra in buone condizioni: dura sotto e con una decina di centimetri di fresca; levo le pelli e mi butto sul pendio rendendomi conto fin da subito di dover tenere a vista la traccia di salita, unico punto di riferimento distinguibile in questo ammasso di nuvole! Supero quindi un paio di curve spaziali e incrocio gli altri tre pazzoidi impegnati negli ultimi metri di salita; dopo un rapido scambio di informazioni sono di nuovo solo con il pendio vergine: un orgasmo lungo alcune centinaia di metri! I legni scivolano veloci nello zucchero dandomi la sensazione di saper sciare mentre la visibilità continua a mantenersi scarsa: sarà forse per quello che mi sento come Rocca?

Solo a discesa oramai conclusa le nuvole si alzano mentre mi godo la neve fresca lungo un facile canale poco più spostato rispetto al fitto bosco di salita dove avrei rischiato di fare la fine del chiodo in un campo di magneti! Sano e salvo ritorno così al mondo civile senza nemmeno una caduta: evidentemente, non ho spinto al massimo!


Cavallo Goloso


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