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PIEDI DI PIOMBO – ALTARE

sabato 16 maggio ‘15


Forse dovrei essere un po’ meno spavaldo considerando che è da dicembre che non metto insieme due o più tiri sulla stessa verticale, vero è che l’estrema frequentazione della falesia servirà pure a qualcosa (oramai non mi stupirei di svegliarmi e trovarmi tatuato con un’infamante FF invece dell’aquila caiana!) e soprattutto che la classe non è acqua ma una via in Valle è pur sempre una via in Valle! Mi lascio quindi trasportare dalla proposta di Cece, spinto dalla voglia di buttare alle spalle i week end passati e togliere la polvere allo spirito della lotta con l’alpe trovandomi così ingabolato nella resa dei conti con Piedi di Piombo. Ieri ha piovuto insistentemente cosa che, dopo l’attacco subito da due boxer giusto una settimana fa,mi lascia il dubbio che le Parche abbiano iniziato a tessere una tela che mi impedisca ogni tentativo di accostarmi al calice del caianesimo: l’unica soluzione è ritardare pigramente il ritrovo (scelta avventata per due caiani ma non per due FF-caiani!) e confidare nel fatto che l’Altare rimanga comunque sostanzialmente asciutto. Sbarchiamo nella paradisiaca Valle e la nostra placca sembra sorridere ai nostri sogni: la parte alta e consistente della via si mostra completamente asciutta, ma come sarà il primo tiro? E, soprattutto, la lunghezza sull’infido zoccolo? Carichiamo gli zaini e andiamo a darci un occhio. Pinne Palmate ci aspetta con i rubinetti completamente aperti: perdo a pari e dispari (ma, nella mia sindrome da Gollum, non so se disperarmi o ritenermi soddisfatto) e apro le danze. Il canale bagnato è una formalità ma poi arriva il chiodo all’inizio del traverso: azzero (iniziamo bene!), mi lavo completamente la gamba e poi prendo una buona lama rovescia. I piedi però occupano la linea di risalita dei salmoni ergo il passo mi sembra un azzardo eccessivo: piazzo il mitico 4 (fortuna vuole che me lo fossi messo all’imbraco!) e raggiungo, dopo un altro diedrino lavato, il bosco. Lo zoccolo è archiviato, ora inizia la vera battaglia! Siccome Cece mostra particolare interesse nel condurre i tiri che, durante lo scorso tentativo, avevo superato da capo cordata e siccome ho il cuore troppo buono, gli cedo le redini del comando e mi accomodo nella mia nuova posizione. Il risultato è che supero praticamente in libera il primo fisico tiro: le due F sul petto si gonfiano d’orgoglio mentre l’aquila si fa sempre più piccina. Dunque la falesia sembra possa servire a qualcosa quando bisogna fare la scimmia ma dopo, dove serve precisione, delicatezza e soprattutto testa? La mente corre al Bimbo e alla sua folle impresa in free solo su questa via e sulla sovrastante Oceano: lui si che di testa ne ha da vendere! Intanto Cece riprende a salire chiudendo i conti con il traverso in placca. Lo seguo: sono sul chiave, vicino allo spit da cui ho appena recuperato il rinvio. Sento di avere il piede sull’appoggio sbagliato e, molto probabilmente, che l’incrocio che mi appresto a concludere mi farà cadere ma ci provo lo stesso. Se fossi il Bimbo, sarei morto: l'accelerazione è istantanea, quasi non me ne accorgo; supero la placca e poi il successivo strapiombino finchè il pendolo torna indietro e il battacchio (cioè il sottoscritto) si ferma. Se non altro ho scelto uno dei traversi meno pericolosi tra quelli in Valle per abbandonarmi agli esperimenti di Newton!

Terzo tiro e stesso ordine di salita: muoio per la seconda volta ma senza spettacolarismi e limitandomi a sedermi sull’imbraco dove il tiro riprende a inerpicarsi dritto per la placca. Manca quindi una sola lunghezza per raggiungere il massimo punto del precedente tentativo e Cece discute il capitolo conclusivo della personale tesi “sul superamento di una via in Valle: Piedi di Piombo e la pianificazione perfetta”. Praticamente mi cederebbe il comando all’inizio della quinta lunghezza, dove un infido e lontanissimo buco ha rappresentato le colonne d’Ercole per numerose cordate: con la scusa dei quasi miei 190 cm, dovrei quindi essere quello con le chance maggiori. Non mi viene in mente di tirare in ballo la lunghezza del pisello perchè altrimenti avrei la certezza di starmene ancora comodamente tranquillo al sicuro della sosta, cosi mi lascio investire dall’onorificenza e mi preparo psicologicamente al prossimo ignoto scaldando già ora la testa con lo spalmo. Respira; spalma. Respira; spalma e sono sopra i due spit. Un passo infido mi permette di agguantare l’incipit della fessura: non è granchè ma con un rapido movimento afferro il labbro successivo e inizio a salire. Mi sento il Master of Crack ma in realtà basterebbe qualcosa di più verticale a farmi abbassare la cresta e tirarmi la legnata sui denti! Intanto devo risolvere il breve collegamento con la spaccatura seguente. Altro attacco cardiaco fomentato dal dubbio che il C3 sotto i miei piedi possa effettivamente reggere una caduta: mi concentro sui cristalli, spalmo estremo, minuscola tacchetta e riprendo a correre con in mano la netta fessura fino a portare le chiappe in salvo con un allungo finale che mi permette di agguantare il logoro cordino che penzola dalla sosta. Ora si apre l’ignoto, la spada di Damocle cala sulle nostre teste mentre la signora in nero affila la falce. Recupero Cece e intanto studio la placca: bene, a destra ci sono dei buoni appoggi. Più in là sembra ci sia una fessurina dove forse potrei proteggermi per poi raggiungere lo spit da cui pende una grossa maglia rapida, la carica ideale! Parto. Un micro cristallo mi permette di prendere il largo dalla sosta e poi, senza difficoltà particolari, rinvio lo spit. In alto il fatidico buco si apre sbeffeggiante. Quello è il mio obiettivo, la chiave di volta. Studio la roccia; metto insieme i passaggi e, con un quadro abbastanza chiaro in testa, provo a realizzare l’opera. Sono appena sopra lo spit, carico il piede e, in una frazione di secondi, sono due o tre metri sotto. Morto per la terza volta; spero sia l’ultima! In realtà la caduta mi da una carica in più: ho sperimentato che non mi dovrebbe capitare nulla per cui mi sento sicuro e ritento. Cambio i piedi raggiungendo con il sinistro alcuni graspolini che mi serviranno da rampa di lancio. In mano degli insignificanti cristalli, completamente imbiancati dalla magnesite che tenta invano di dare un freno alle cascate che si liberano dalle mie dita. In basso l’incitamento di Cece fa lo stesso effetto dello sparo dello starter: mi accuccio e spicco il volo. Ma questa volta vado nella direzione giusta: agguanto il buco (che pensavo fosse più netto) e esco dal chiave. L’adrenalina scorre nelle vene tanto che, agguantata la fessura, macino altri metri prima di decidermi a piazzare qualcosa. L’aquila ha spiccato definitivamente il volo oscurando la scena alle due F. Ma non è finita! Ho la sosta ad un palmo di naso ma quello sputo di roccia è difeso strenuamente. La placca sembra offrire più soluzioni ma il grosso pisello di gomma è dietro l’angolo: a destra sembra ci sia un passo troppo alto che provo ad affrontare ma senza il coraggio per spingere definitivamente sulla gamba e così torno sui miei passi. Sotto ho un chiodo e, poco lontano, un friend: terranno? Meglio non pensarci e risolvere il cubo di Rubic! La soluzione di sinistra sembra fare il paio con la vasca dei piranha: i primi movimenti sembrano facili ma poi bisognerebbe tornare verso la sosta; insomma, la soluzione migliore sembra sia la strada più breve tra le protezioni e la sosta! Smagnesio e parto: carica, spalma, spingi e carica. Il chiodo si allontana, la sosta si avvicina.

Una manciata di secondi dopo sto recuperando Cece. Sento i piedi pesanti, come fossero di piombo: credo di avere la via in tasca e già favoleggio sulla possibilità di continuare su Self Control. Cece mi riporta alla realtà: manca un tiro, iniziamo a metterci in tasca la via e poi vedremo! Riprendo a scalare: ho la testa da un’altra parte, mi sono illuso di poter passeggiare ma dopo pochi movimenti devo riacchiappare la concentrazione. La danza del sali scendi mancava ancora all’appello: compio il mio saggio prima di raggiungere lo spit e poi, superato un breve tratto delicato, sono al bivio. L’aquila frulla le ali e spicca un salto nel vuoto: altre volte mi ero immaginato di salire per la placca di VII ma ora che sono alla resa dei conti scappo su per la rampa facile e sono in cima all’Altare!

I conti finalmente si chiudono e, per oggi, questa sarà la nostra meta mentre ho felicemente scoperto che, anche dopo il digiuno, il mio stomaco rimane elastico e capiente perchè in fondo sono pur sempre Fraclimb, il caiano con sopra la veste da FF!


Cavallo Goloso


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sabato 08 ottobre ‘11


Sono in crisi d’astinenza: sono due settimane che non tocco roccia in montagna e ho paura di essermi giocato due week end di tempo stupendo e ancora estivo. Ma, d’altro canto, non mi sogno minimamente di lamentarmi per quello che ho fatto; non sono come Twight: non ho alcuna intenzione di accantonare alcune persone per l’alpinismo, dal mio punto di vista le due cose possono benissimo convivere senza nessuna rottura. Non diventerò mai un estremo, continuerò a cagarmi nelle mutande su gradi facili e, appena potrò, tirerò il rinvio; non uso la banderuola e non scalo con il walk-man; ma, almeno nel senso di appagamento, noi scarsi siamo uguali ai nostri supereroi.

Era da tempo che rinviavamo quella salita: in realtà ne abbiamo fatte altre, dure, appaganti. Ma quel maledetto faccione che guarda al Disgrazia rimane sempre lì: ho scalato la sua parte sinistra per diverse vie, sono stato in cima una sola volta e un’altra ho tentato di raggiungere la cengia mediana per la prima via della parete; ma rimaneva da fare l’altra linea abbordabile. Scendendo in doppia dall’Altare ho potuto ispezionare più volte quelle placche e ad ogni discesa corrispondeva sempre la solita domanda: come diavolo si può salire da lì? Si può sopportare il peso della curiosità ma ad un certo punto quello ti stritola, ti spiattella al suolo e a quel punto esplodi, non hai più alternative: è arrivato il momento di assecondare la passione e mettere le zampe sulla preda!

Ho scoperto a cosa serve la retina dell’imbraco, quella che lo custodisce quando lo si infila nello zaino stritolandolo sotto il peso dei ferri. L’ultima volta che ho trovato un porcino credo fossi alto un metro e venti; settanta centimetri dopo mi imbatto in un bellissimo esemplare proprio a lato del sentiero! La giornata inizia nel migliore dei modi. Sono assillato dalle stelle alpine: la prima volta che le ho viste, sono fiondato e mi sono rotto il polso (era il 2004); la mente umana è un’arma micidiale: l’associazione tra le due specie rare è subito fatta. Scaccio il pensiero e mi preparo.

Non mi piace il metodo carta-forbice-sasso, preferisco la tradizione: il primo tiro a Cece, quelli pari a me. Così parte lui sul tiro dello zoccolo: l’inizio non è dei migliori; sono un po’ arrugginito e quel quintone mi va un po’ stretto. Siamo di nuovo soli: la cordata che avevamo davanti si è calata e sulla parate torna a soffiare il silenzio. Superato il bosco pensile, raggiungiamo l’attacco della via: il diedrone iniziale ci accoglie apparentemente benevolo. Inizio la mia salita. Mi sento normale: né in super pompa né completamente svuotato. Incastro nella fessurina, cerco l’appoggio e salgo. Ripeto i movimenti una, due, mille volte mentre i friend diminuiscono rapidamente. Scalo quasi tutto in libera. Incredibile. Penso a Twight e mi vengono in mente gli AC/DC. Cazzo, un giorno o l’altro mi porto l’i-pod! Raggiungo la sosta intermedia e mi appendo. Mi sembra di aver scalato un’infinità di metri ma poi Cece è poco più in basso: proseguo. La questione non cambia, ma le condizioni delle mie esili braccia si: sono indolenzite e gonfie, gli incastri sono meno efficaci e, alla fine, devo staffare per raggiungere la sosta. Sono esterrefatto: ho esaurito un’intera serie di friend. Non me ne frega di quello che pensano i forti: se per passare devo staffare lo faccio e lo dico!

Cece mi raggiunge e inizia la seconda lunghezza. Ma oggi è in giornata no e al primo spit, dopo numerosi tentativi, torna indietro e mi passa di nuovo il testimone. In fondo non faccio che restituirgli il favore dell’Eghen quando è stato lui a superare il tiro duro del camino mentre il sottoscritto se la faceva sotto tirato su come un sacco da parete. È arrivato il mio turno e mi trova preparato. Il diedrone mi ha galvanizzato. Mi sono sentito forte: ho piazzato le protezioni con calma, ho studiato le camme aprirsi e poi sono salito incastro dopo incastro, cedendo solo poche volte al richiamo del caiano. Devo solo ripetermi. Raggiungo lo spit, studio la roccia e continuo. Gli AC/DC mi rullano in testa, sbuffo e sono in sosta; certo che sta via inizia a farmi sudare le proverbiali sette camice: la chiodatura non è proprio da ferrata e la scalata offre diversi passi delicati lontani dagli spit.

Cece abdica totalmente; guardo la fessura successiva e mi ributto nella lotta. Il Disgrazia è ingrigito, la luce del sole fatica a sfondare il sottile strato di nuvole. Fa un freddo cane ma la tensione riesce a scaldarmi. La fessura è meno dura del previsto, ma la sezione di placca è una vera sofferenza mentale. Il cervello frigge e io provo a tranquillizzarlo spalmo dopo spalmo.

Riprendo friend e rinvii e sono nuovamente in campo per la quarta lunghezza: ancora placca e poi fessura. Supero la sezione su spalmi ripetendo che quello è il mio limite, che oltre non posso andare, che le altre vie gradate allo stesso modo sono più semplici. Insomma, le solite fottute lamentele: cazzo, tira fuori la paglia dal culo e muoviti!

Lo scenario atmosferico rispecchia la mia sicurezza: un leggero turbinio di fiocchi di neve ci colpisce. È solo un momento ma il termometro scende in picchiata.

Finalmente sono alla fessura! Il binomio è troppo scontato e la mia piccola mente cade nel tranello; ma al raggiungimento della fessura non corrisponde la salvezza. Il chiodo che mi protegge dondola. L’ultima volta che mi sono trovato in questa situazione sono volato ma il chiodo ha retto. Resto immobile a studiare la placca. Solo un misero insignificante passo, sono solo pochi centimetri e poi posso afferrare la fessura che smette di essere ceca. Schiaccio il piede e vado. Sono salvo! Velocemente guadagno qualche metro, mi proteggo con un C3 e salgo. La fessura termina: devo prendere una specie di orecchia, spalmare e salire alla fessura soprastante. Sono pochi movimenti ma sono avvolto dal terrore. Se cado, quel maledetto C3 non credo reggerà all’urto. Non mi fido di quelle protezioni così piccole: la maggior parte delle volte che le ho tirate mi sono rimaste in mano! Continuo a ripetermi di stare tranquillo e, dopo il valzer del sali-scendi, piazzo subito sotto la dubbia protezione un bel Camalot 0.4. Mi sento meglio, ma non sono ancora a posto. Tornare indietro è quasi impossibile, anche se, per un attimo, provo a pensarci: dovrei abbandonare uno o due friend ma non sono dell’idea di lasciare qualcosa in parete quindi l’unica soluzione è continuare a salire. In fondo si tratta di pochi movimenti. Scruto meglio la fessurina e riesco a piazzare il nut “chetisalvailculo” sopra il C3; studio la roccia, spalmo, carico il piede, mi isso e con l’eleganza di un pachiderma azzoppato riprendo la fessura dove è più netta.

Superato il passo duro, procedo rapidamente fin sotto la sosta. Il ristabilimento finale, protetto dallo 0.75, è l’ultimo enigmatico e cagoso passaggio e, dopo un attento studio, acchiappo al volo il cordino della sosta. Salvo!

Ho il cervello in pappa, ridotto ad un ammasso informe, tipo carne trita; la frittura è cotta a puntino ed è ancora bella fumante. La placca soprastante sembra insuperabile e la maglia rapida che penzola dal primo chilometrico spit non aiuta la mia turbata psiche. Sono completamente svuotato. Per oggi può andare così. Recupero Cece e intanto mi convinco sempre più che sia il caso di buttare le doppie.

L’attesa può essere molto pericolosa: Cece mi ha raggiunto e iniziamo ad osservare la placca del quinto tiro. Forse stando alti si può passare. Ma sono parole al vento; ripasso i passaggi “estremi” del tiro precedente (col cazzo che Luna è così dura!) e decido che per oggi possa bastare.

Un giro nel bosco non me lo faccio sfuggire: rimango indietro diversi minuti ma trovo il fratello vecchio del porcino mattutino; la cena è assicurata mentre il tarlo comincia a scavare. Forse avremmo potuto tentare: si poteva passare sopra la sosta, provare a raggiungere il primo spit...


Cavallo Goloso


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