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ANCHE PER OGGI NON SI VOLA – PRECIPIZIO DEGLI ASTEROIDI

sabato 31 maggio ‘14


Anche per oggi non si vola (e ci mancherebbe pure) ma si staffa e si tirano i rinvii! Quando Cece mi lancia la proposta non so se essere indeciso o fiondarmi sull’attenti con la bava alla bocca: alla fine opto per la seconda ma senza bava.

Esco di casa che è nuvolo, grigio, scuro, coperto. Poco prima di Lecco fa anche qualche goccia e mi viene la tentazione di mandare un sms: porta l’intera! Poi però il meteo cambia e in Valtellina è sereno: andiamo avanti e puntiamo al cainesimo extreme!

Il primo intoppo ce lo mettono i vigili: l’accesso in auto al Gatto Rosso è vietato nei week end; ci mettiamo quindi l’anima in pace e ci accolliamo l’avvicinamento prolungato con buona pace del porta fogli che se ne sta tranquillo al suo posto.

L’incontro con la signora con la falce avviene prima della prassi ma, d’altra parte, lo sapevamo già: iniziamo con un passo su placchetta per proseguire con le fisse. Le osservo, le tiro come fossero le campane della chiesa e poi mi ci appendo e inizio ad issarmi alla marinara. Mi sento tanto un caiano d’altri tempi intento negli allenamenti alla Cassin! Le corde reggono e mi preparo per quel che resta di uno degli avvicinamenti più alpinistici mai fatti fino a raggiungere l’agognato attacco.

Parte Cece: lui si è proposto e a noi va bene, forse perchè non ho idea di quello che ci spetta più in alto, fatto sta che accodarmi lungo lo spigolo è forse la cosa migliore per rodare il motore. Al Precipizio siamo completamente soli, nessuna cordata sulle placche a sinistra né tanto meno su Oceano; forse che ancora una volta siano tutti all’Alkekengi?

Azzeriamo e i primi metri di parete restano dietro le nostre spalle; le scarpe nuove (le stesse di Colibrì ma con all’attivo una serata di falesia) sembrano comportarsi bene imprigionando il piede in una compressione accettabile.

La seconda lunghezza è un monumento; mi ricorda i tiri di Galactica solo che qui siamo su difficoltà un po’ più umane e con chiodatura non al cardiopalma, così, vuoi anche perchè scalo da secondo, riesco a passare in libera godendomi ogni movimento di questo muro verticale. Sotto intanto iniziano ad assembrarsi altri pretendenti: prima una coppia, forse salita con altre ambizioni sportive, cincischia alla base di Oceano per poi allontanarsi definitivamente quando un altro duo arriva a rovinare ulteriormente la privacy: troppa ressa sulla cengia alberata. Noi intanto continuiamo a salire fino ad arrivare ai tiri “facili”. Infatti la fessura di sesto è come il cubo di Rubic per un cieco: la capacità di incastrare non è certo tra gli optional di cui dispongo ma, ancora una volta, salendo da secondo e tirando la Dulfer spacca-braccia guadagno la sosta. L’artificiale estremo comunque è in procinto di varcare la soglia del palcoscenico: la prima lunghezza veramente dura è subito sopra e, a questo punto, bisogna tirare fuori i denti mentre inizio a sentirmi pressare dagli altri due scalatori che, piuttosto velocemente, si avvicinano alle nostre chiappe. Mi stupisco di come Cece sia riuscito a passare tra due cordoni e agguantare la sosta e quindi inizio a prepararmi psicologicamente per il mio momento da capocordata. Alla fine però rimandiamo ancora il tutto perchè è forse meglio superare ancora da secondo il tiro di 8a (e quindi di A0) onde evitare di mandarmi subito al manicomio e mettermi fuori gioco sulle placche conclusive. Così mi trovo a seguire per l’ultima volta le corde uscendo dal pilastro verticale della parete la cui pendenza ora si abbatte decisamente. Ricompare la signora in nero anche se resta timidamente in disparte. Guardo la placca, strabuzzo gli occhi per gli spit chilometrici (ma più tardi avrò modo di rimpiangere tale abbondanza) e poi inizio a spalmare. Lentamente mi allontano dalla sosta: la roccia è lavorata e le scarpette lavorano egregiamente. Raggiungo la prima protezione e poi mi avventuro verso la successiva: ogni volta che rinvio (e sono poche!) è come approdare per un attimo alla sicurezza del porto per poi ritornare immediatamente in mezzo al mare in tempesta; poi finalmente, con un ultimo run out, sono in sosta. La vecchia signora in nero è accompagnata da una donna più giovane, anche lei incappucciata e con la falce ben affilata. Davanti a me vedo solo granito e qualche zolla d’erba ma nessuno spit né, ovviamente, possibilità di proteggersi. Recupero gli amici ed è proprio Cece a dirmi di vedere uno spit più in alto; sarà che mi cago sotto ma io non vedo un bel niente, comunque mi carico il coraggio e, sotto l’attento sguardo delle due distinte signore mi avvio al mio destino. Supero le zolle e finalmente vedo lo spit; lo raggiungo e lo supero ribaltandomi su una grossa vena dove rinvio la protezione successiva e poi il vicino chiodo. Salgo ancora un po’ e mi trovo a lottare con la mente: l’autocontrollo si batte contro l’istinto di sopravvivenza e la paura che mi suggeriscono di tornarmene a casa e dedicarmi agli scacchi ma alla fine il primo ha la meglio. Ancora una volta arrivo quindi alla sosta mentre sotto la cordata che ci insegue alza bandiera bianca.

Ora sono tre le donne con la falce: nonna, madre e nipote. Mi osservano con occhi spiritati e luccicanti mentre la più piccola sembra leccarsi i baffi che non ha. Lascio la sosta e, dopo pochi metri, rinvio l’unica protezione disponibile, una rassicurante fascia di alberelli. Il mare granitico si eleva docile e mansueto verso la sosta che rimane là in alto a circa 30 metri dal punto in cui mi trovo. Salpo e lascio il porto: in realtà l’arrampicata non è difficile ma l’aria sotto le chiappe che va aumentando sempre di più ha un effetto deleterio sulla mente. Vedo la sosta sempre più vicina, evito di infognarmi nel difficile perchè l’alpinismo è e resterà sempre il facile nel difficile, compio un’acrobazia finale e agguanto i due anelli: salvo. La nipote piange e si allontana: le faccio il dito medio e tiro un sospiro di sollievo mentre mi preparo a recuperare Cece e Matteo.

Sono ancora in lotta con la gravità e con l’attrito; benedetto attrito! Ho rinviato il secondo spit e mi sono fatto ingolosire da un funghetto. Peccato non sia un porcino ma una bella amanita: sono quindi arenato nel nulla cosmico dove inizio a fare la danza dell’indeciso, prima giù e poi su, un po’ a destra e poi a sinistra fino a tornare nuovamente al fungo. La mamma si frega le mani ossute e la nonna richiama la nipote. Tiro fuori tutta la calma possibile e immaginabile e mi soffermo solo sulla roccia. I miei amici mi diranno che in quel momento faceva un freddo cane ma io non ho sentito nulla! Guardo a sinistra e mi accorgo che forse la via sale di lì: torno indietro, mi sposto e inizio a salire. Ancora una volta frego le tre donne e guadagno lo spit. A questo punto sono sotto un muretto aggettante: traverso quindi a destra fino a dove la parete mostra un punto debole, mi proteggo e poi provo a salire alla vicina sosta ma le corde salgono come un TIR con il freno a mano tirato. Voglio gettare la spugna, lasciare perdere e tornarmene a casa finchè sono ancora in tempo. I piedi pulsano e sembrano sul punto di esplodere; torno quindi ai vicini alberi e recupero gli amici anche perché la sosta a spit mi pare protetta da un ostico passaggio. La pausa dirada le nebbie che ho in testa e quando riparto sono un climber nuovo: torno sui miei passi, salgo alla sosta e continuo. Le signore in nero si vaporizzano mentre rapidamente raggiungo e supero gli ultimi facili metri: i bollini piovono a iosa mentre mi gusto l’agognato e sudato arrivo ringraziando Newton per la forza di gravità.


Cavallo Goloso


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