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COLIBRÌ – ALKEKENGI

sabato 24 maggio ‘14


Non so se mi ricordavo un avvicinamento così caiano o se ho voluto nascondere l’evidenza dei fatti concentrandomi solo su quella che sarebbe stata l’avventura verticale, fatto sta che, appena lasciamo il ridente e bucolico fondovalle, ci troviamo ad inerpicarci prima nel bosco ripido e poi lungo una specie di greto di un torrente. La lotta con l’alpe si alza quindi presto facendoci stare in compagnia di sassi, rovi e acqua che si pongono a difesa della parete ma comunque avanziamo lentamente fino ad arrivare in vista dell’attacco. In valle non c’è nessuno: Oceano grava in totale solitudine, su Kundalini passano le palle di arbusti dei film westner mentre solo una cordata è impegnata su Cochise e, infine, in alto sullo Scoglio non si scorge anima viva. Dove sono quindi finiti tutti gli arrampicatori? Banale domanda a cui segue una più ovvia risposta: qui, all’Alkekengi! Davanti abbiamo ben due cordate e, poco dopo il nostro arrivo, se ne materializza una terza! Alla faccia dell’arrampicata in solitudine! Scambiamo quindi due chiacchere con gli ultimi venuti in attesa di iniziare la nostra salita e viene fuori che ho davanti un mio fun! La cosa se da un lato mi mette l’ansia da prestazione, dall’altro mi rincuora: in fondo questo blog è pieno di amenicoli arrampicatori per ovviare alle difficoltà e quindi perchè mai dovrei essere turbato qualora dovessi utilizzarne qualcuno? Intanto, giusto per rendermi la vita più semplice, infilo i piedi in due presse comprimitrici: inaugurare le scarpette nuove su una via non è forse la cosa migliore ma, d’altra parte, le scarpe da prestazione sono dal calzolaio e l’unica alternativa sono un paio di ciabatte che si avvicinano alla precisione come fossero due rette parallele. L’effetto sandwitch è quindi devastante e accompagnato da un dolore lancinante ma faccio lo stoico e parto. Piazzo un paio di friends e sono al primo spit: provo a passare ma la parete mi rimbalza indietro. Non ho grandi ambizioni se non levarmi di dosso le scarpette e quindi non mi perdo in troppe elucubrazioni: afferro il cordino e staffo. Sono ad una tacca, ho la soluzione per i piedi ma ripeto la sequenza erroneamente: sinistro sullo spit e destro su appoggio dove però dovrei mettere l’altro piede. Da lì non riesco a muovermi per andare a prendere il bel fungo più in alto. Poi mi illumino e proprio quell’escrescenza mi da la soluzione per proseguire: lancio la fettuccia e, un po’ come Bonatti al Dru (blasfemia!), catturo la mia preda. A questo punto, tirandomi sulla fettuccia, raggiungo il vicino spit e mi tolgo dagli impacci. Ma dalla padella cado nella brace: il passo successivo mi sembra un altro palo e questa volta i trucchi circensi non si traduco nell’effetto desiderato così, alla fine, abbandono una maglia rapida e torno 10 metri più in basso.

Stiamo quindi preparandoci per il rientro, quando la prima cordata rientra alla base: hanno già terminato la via? In realtà e purtroppo no: chi si cala è il capocordata che ha personalmente misurato la placca lasciando brandelli di pelle come ricordo della sua avventura. Fortunatamente il climber, sebbene un po’ pesto, mantiene un buono spirito e così lo lasciamo alle cure dei suoi amici e ci avviamo verso il fondovalle concludendo la nostra giornata arrampicatoria con una rilassante passeggiata verso le baite della Rasica.


Cavallo Goloso


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