TENTATIVO – GRIGNETTA
domenica 13 novembre ‘11
Senti il suono delle campane che rintoccano a festa e il dolce e delicato profumo che aleggia nell’aria? Lo cogli il senso di festa che pervade da ogni dove? È il Tiraggio dei Chiodi che esulta e si esalta perchè ha visto che oggi due creature fatte a sua immagine e somiglianza lo hanno omaggiato, lo hanno reso il fulcro della loro giornata caiana.
Dopo la precedente esperienza, mi sono fiondato all’acquisto di qualche altro chiodo: l’incapacità a forgiare il metallo (in questo non sono degno dei migliori padri del caianesimo) si è però messa a braccetto con il magro stipendio (almeno in questo non sono da meno rispetto i padri del caianesimo) con il risultato che esco dal negozio con solo quattro chiodi. A dire il vero i ferri mi sembrano più che sufficienti per lo scopo e così in preda ad una sbornia da autoincensamento in previsione della gloria futura, accendo la macchina e torno a casa.
L’ora è scoccata; la freccia sibila nell’aria puntando all’obiettivo. Vedremo poi se l’arciere è stato un buon Guglielmo Tell o se, invece della mela, centrerà qualcos’altro.
Cece ci lascia campo libero e già sto sognando la nuova linea quando squilla il telefono. È Fabio! Quel nome impresso sul display del cellulare è lapidario. Non mi vorrà tirare il bidone? Sto guidando: meglio che risponda Micol onde evitare impreviste sbandate; la notizia potrebbe avere effetti involuti sulla mia psiche. Nulla di grave: semplicemente il ritrovo è posticipato di mezz’ora, cosa che si traduce in analogo tempo aggiuntivo da trascorrere sotto il piumone.
Abbiamo le ali ai piedi: siamo saliti sul carro del Tiraggio dei Chiodi perchè, nonostante l’allucinante peso sulle spalle, in poco meno di un’ora siamo alla base della Mongolfiera. Una giovane cordata si consacra all’ombra della via del littorio: nuovi caiani crescono! Noi ci portiamo alla solatia parete del nostro obiettivo e carichiamo di ferraglia gli imbrachi.
Questa volta non mi ritraggo dal rito di carta-forbice-sasso; oltretutto non provo la solita sensazione di ripudio nei confronti dello scaramantico gesto. Sarà forse che ho appena scaricato l’intestino.
Vince Fabio e si aggiudica la roulette della prima lunghezza. Calzate le scarpette è praticamente un fulmine rispetto alla patetica, “bradipesca” salita del sottoscritto del primo tentativo. Fabio sale seguendo le mie indicazioni, aggira uno spigolino, scova la bella clessidra ed è poi al mio chiodo. Lo supera, ne pianta un altro e arriva al prato ripido. Il Tiraggio dei Chiodi gongola. Fabio si esalta e inizia a salire su quelle infide zolle; forse Cece ci sta pensando. Mi urla poi che ha scovato un chiodo del Boga e poi uno più recente e quindi sosta. Già, perchè la prima parte della via è in comune con una vecchia salita degli anni ‘30, tale via Lario di cui sono attestate un paio di ripetizioni.
Seguo le corde e raggiungo Fabio: quel prato è una vera mannaia, sarebbe stato meglio avere due belle picche!
I nostri sguardi sono rivolti alla fessura del tiro seguente. La roccia giallina si presenta come un marcione indicibile: il colore è come se non fosse riuscito a restare appiccicato a quella parete! Spero vivamente che i chiodi possano entrare in quella fessura e mi accingo ad iniziare il secondo tiro. L’alito del Tiraggio dei Chiodi si diffonde nell’aria.
Evito il primo tratto passando sulla sinistra: la roccia non è certamente quella del Wenden ma non è poi tanto diversa dalla prima lunghezza della via del littorio. Sono sul ripiano erboso: due friend sotto i miei piedi sono gli unici freni che mi impedirebbero di finire sdraiato sotto un metro di terra. Pianto un chiodo. O meglio: smartello un pezzo della lama nella fessura che si rivela cieca. Afferro delicatamente il ferro e piazzo lo 0.5. Sembra ben messo ma la mia fiducia è comunque a bassi livelli. Mi guardo attorno per studiare la situazione: la parete è maledettamente verticale ma la roccia non è poi così cattiva come sembrava all’inizio. Mi ricorda il tiro di VII della Cassin alla Costanza, ma è un ricordo velato, antico.
Il Tiraggio dei Chiodi gongola e io decido di infilarmi lentamente tra i tizzoni della brace. Mi alzo con la massima delicatezza su uno speroncino, il friend sempre a portata di mano e provo a piazzare un chiodo: lo infilo quanto basta perchè rimanga lì e poi torno alla cengia. Non vorrei incappare nell’effetto cerniera così provo a piazzare un altro chiodo a sinistra del friend. La fessura è stretta e chiusa, estraggo un knifeblade dall’imbraco: due martellate e il chiodo vola verso il basso. Cazzo! Il secondo fa la stessa fine ma il terzo spacca la roccia e si incunea al suo interno. Maledicendo le due perdite e la mia stupida incapacità, risalgo al chiodo più alto e lo pianto interamente nella roccia. Non pensavo che l’operazione potesse essere così sfiancante: ho il braccio destro anchilosato e per di più temo che in caso di volo le protezioni possano fare lo strip tease; mi domando allora se non sia il caso di scendere ma nel contempo provo a mettere l’ennesimo chiodo. Quello entra permettendomi di guadagnare altri preziosi centimetri. Davanti a me la fessura prosegue ma la parete smette di essere verticale: il Tiraggio sembra averci concesso una tregua dopo circa 5 metri superati con le unghie e i denti e un indicibile dispendio di energia.
Piazzo uno 0.3, lo tiro e poi uno 0.75 che sembra tenere nonostante sarebbe meglio l’1. Lo afferro e mi alzo. Il friend si muove e le mutande si colorano ma la protezione, dopo essersi assestata, rimane in posizione. Procedo istantaneamente alla sostituzione e poi provo a salire: la parete sembra offrire delle buone possibilità per appoggiare i piedi e poi la fessura sembra andare bene per i friend, così piazzo un C3 giallo che viene subito sputato. Mi sto ghisando all’inverosimile e oltretutto la posizione non è delle più comode; dovrei piazzare un chiodo ma non è possibile staccare due mani contemporaneamente. Solo a quel punto penso alle staffe. Forse, se le avessi usate prima, mi sarei risparmiato una bella faticaccia!
Staffo sull’1 ma sono distrutto: il braccio destro è completamente andato. Ho risolto la sezione più dura ma ho esaurito le forze oltre a gran parte dei chiodi disponibili! Oltretutto non ho trovato nessuno dei 7 chiodi citati dalla guida del CAI che sarebbero sicuramente tornati utili: dura la vita dell’apritore!
Alla fine, lascio l’assedio a Fabio che, con le corde già piazzate, raggiunge in un attimo il punto massimo che ho faticosamente e lentamente guadagnato. Si alza sulla staffa e riesce a piantare un chiodo e poi un altro. La lunghezza dovrebbe essere a portata ma il resto della linea appare ancora repulsiva anche se la roccia sembra migliorare.
Considerando la tecnica adottata, avremmo bisogno di molti più chiodi per guadagnare la vetta così concordiamo di scendere con l’intento di tornare poi più agguerriti. L’idea di ripercorrere quel faticoso sentiero per l’ennesima volta non mi sfagiola più di tanto ma al contempo il desiderio di salire là dove nessuno è passato è un incredibile sprone: un po’ come la prospettiva di gustarsi l’abbonamento annuale ai mega pasticcini del Melillo dopo una dura battaglia!
Cavallo Goloso
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La Sig.ra Siberia ci saluta beffarda con la manina gelata dal finestrino dell’auto. Preparo lo zaino infilandoci tonnellate di materiale e poi partiamo. In questi giorni ho svuotato i negozi di Como dei chiodi di cui disponevano: è stato un po’ come andare alla ricerca della pietra filosofale, ma, d’altro canto, ero continuamente pungolato dal nuovo progetto che, per diversi giorni, mi ha noiosamente ronzato in zucca.
Saliamo lungo la traccia quasi in totale silenzio; la situazione si fa sempre più pesante, favorita anche dal carico che grave sulle spalle: il nugolo di mosche che ho in testa sbatte a ripetizione contro le pareti del cervello mentre una miriade di ali si cimenta nella classica e irritante suonata ronzante. Sono assalito dai dubbi, un po’ come le pareti sono assaltate da una fredda cappa grigiastra.
Siamo alla base della parete. Lo so perchè ne intuisco le forme ma davanti a noi potrebbe esserci qualsiasi cosa: un ripido prato, uno scosceso dirupo o anche la nave dei pirati! La visibilità è ridotta ad una cinquantina di metri mentre, da un giorno con l’altro, siamo precipitati nel profondo inverno. L’umidità è salita a livelli da foresta equatoriale, tanto è vero che i pile sono completamente zuppi. Sugli ingialliti fili d’erba brillano gli spilli della brina completamente gelati; il panorama sarebbe stupefacente se non fossimo protagonisti del quadro: standoci dentro, tutto diventa tristemente tetro e agghiacciante. Mi attendo da un momento all’altro che sbuchi dalla nebbia il Drakkar dei Vichinghi. Ma poi mi ricordo di non essere più in Norvegia. Devo stare attento a non essere investito da qualche TIR.
Attendiamo impassibili per qualche minuto ricordandoci a vicenda che fa un freddo cane; siamo come due pendolari in balia di un treno che dovrebbe arrivare ma che non viene mai annunciato. Poi finalmente ci decidiamo a fare il punto della situazione: le nuvole non si schioderanno mai e tanto meno la colonnina di mercurio del termometro. Anzi, quella, al massimo, potrebbe iniziare a precipitare verso il basso! Quindi dobbiamo prendere una decisione e cercare di darci una mossa se non vogliamo fare la fine del prato. È scontato che dovremo rinunciare alla via però, dato che siamo già qui, potremmo salire la prima lunghezza, giusto per farci un’idea più precisa di quello che sta sopra.
Individuato il facile tiro iniziale, mi appresto alla scalata; friend, dadi, chiodi, martello e staffe: direi che il menù è completo. E siccome sono “forte”, non metto nemmeno le scarpette, tanto qui è più erba che altro. Alla fine ci impiegherò circa 50 minuti per salire e farmi ricalare a terra! Tecnicamente la scalata non è nulla di che ma la roccia non da grande fiducia e la presenza di erba che rasenta il verticale non aiuta la progressione. Inoltre fatico non poco a piazzare qualche protezione decente: non trovo nulla per i friends e riesco a piantare a fatica un chiodo dalla dubbia tenuta. La lunghezza è praticamente un zigzagante percorso che unisce i punti deboli dello zoccolo, senza riuscire però a raggiungerne il termine. Sarei costretto a infilare le scarpette, proseguire per un canalino e quindi, dopo un prato ripido, raggiungere la parete vera e propria. Preferisco lasciare un chiodo e tornare in un posto più sicuro.
Fabio è un pezzo di ghiaccio mentre io mi sono scaldato per bene.
Poco dopo mezzogiorno la macchina manda a cagare la Siberia. Il termometro segna 4 gradi.
Non si può buttare il sabato e quindi andiamo in Antimedale. Sembra di essere alle Barbados: fa caldo e c’è il sole. Al posto della Grignetta si vede solo un immenso ammasso grigio. Optiamo per una salita rapida della via degli Istruttori e subito mi viene in mente quando era necessaria una spedizione per affrontare quella parete. Ora le cose sono cambiate e il livello si è alzato. Anzi, si è decisamente alzato: oggi, la spedizione serve per affrontare un cazzuto tiro in Grignetta che a mala pena arriva al quarto grado!
Parte Fabio e poi tocca al sottoscritto: con due lunghezze siamo alla base del diedro di quinto, il penultimo tiro. Del resto siamo forti. Ci respinge solo un po’ di clima alpino e della roccia non proprio verdoniana!
Davanti a noi si attardano due cordate: vogliamo essere a casa prima possibile e quindi ci spostiamo sulla Chiappa. Con altre due lunghezze usciamo dalla parete e iniziamo la veloce discesa verso l’auto.
In fondo sono contento: sono stato respinto da un fottutissimo tiro in Grignetta ma ho visto che da lì ci sono delle possibilità di salita, almeno per altre due lunghezze. Poi si vedrà! Eppoi ho ridato fiducia al mio ego scalando l’insormontabile parete dell’Antimedale in sole quattro lunghezze!
Cavallo Goloso
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