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PUCCI PUCCI – PILASTRO IRENE

domenica 31 marzo ‘13


Con 10 giorni di ritardo, la primavera si accorge di essere stata buttata sulla scena e inizia a recitare qualche timida battuta; siccome però quel megalomane e primattore dell’inverno ha continuato imperterrito a calcare il palcoscenico, la sua pesante impronta brilla ancora sulle vicine montagne. Così, costretti dalle bizzarrie del regista, rivolgiamo le nostre attenzioni alle pareti di Lecco, oramai rassegnati a non raccogliere bollini nemmeno questa volta.

E invece è proprio qui che si scopre il genio, la fantasia o forse la propensione a topo da biblioteca di Cece: oggi si punta a Pucci Pucci al Pilastro Irene! Prego? Cos’è una smielata sequela di barluccicanti spit appena trapanati su qualche solare lavagna dell’avancorpo del Medale? Niente di tutto questo: è un residuato dell’antica guida di Gallo del ‘88, un vero cimelio dell’arrampicata nel lecchese! Del resto le migliori chicche fanno parte della storia passata oppure le si trovano sul “sitodiriferimento”!

Così, dopo essermi accorto tardivamente del cambio dell’ora, aver mandato all’aria tutti i propositi di risparmio energetico pigiando al massimo sull’acceleratore dopo aver preparato un té più simile ad acqua sporca che non ad un infuso, raggiungo Cece, Silvia e Cristian al fatidico parcheggio. Sarà perchè la gente si appresta ad assaltare il capretto pasquale o perchè quest’anno sembra che la zona del Medale non sia più di moda, fatto sta che, nonostante la temperatura, sulla parete si trova solo una cordata: non ci rammarichiamo più di tanto e ci focalizziamo sui primi due tiri della via degli Istruttori. Ora, se il Simone Pedeferri è la causa dell’unto a Scarenna, il Crodaiolo del vonciume sulla Cassin al Medale, probabilmente noi saremo il motivo del lisciume che presto o tardi farà la sua comparsa anche su queste lunghezze!

Lasciamo da parte i risvolti futuri delle nostre attività e raggiungiamo la base del Pilastro. Alla fine Cece preferisce deviare sulla “più facile” Sogni Proibiti causa incontro tra Silvia e una vipera che ha non poco scosso la donzella del gruppo; il sottoscritto invece punta, insieme a Cristian, alla scoperta del vecchio. Il portone che si apre sul cortile della storia non cigola, i cardini sono sufficientemente oliati e gli assi di legno girano sui loro perni senza troppa fatica: la fila di chiodi cui mi appendo e avvinghio, nonostante l’età, fa bella e solida mostra di sé lungo la stretta fessura, coadiuvata anche da un ferro nuovo segno che non siamo i soli ad essere spinti dalla voglia di riscoperta. Raggiungo così la sosta mentre inizio a studiare la successiva stanza del maniero: si sale lungo una serie di fratture e vaghi diedrini fino ad un breve diedro più netto oltre il quale si appoggia una placca. Lo sguardo non riesce ad andare oltre e, con un grosso punto interrogativo, mi accingo ad affrontare il nuovo ostacolo. Scalo guardingo moschettonando due vecchi dadi e poi mi fermo sotto la verticale del diedro: davanti a me si erge un invalicabile muro verticale. Lo osservo come fossi di fronte al fossato che mi separa dal castello mentre il ponte levatoio resta alzato a difesa della dimora. Dal basso Cristian mi suggerisce di provare a sinistra, dove sembra più facile: certo la fa facile lui, al sicuro della sosta, lontano dai marosi e dall’impeto della bufera. Però in effetti quella sembra l’unica soluzione: mi carico un po’ di coraggio e parto per quello che potrebbe essere un passo senza ritorno. Mi alzo lentamente e con circospezione fino a scovare uno stupendo vecchio chiodone mimetizzato da un ciuffo d’erba. Da lì al diedro e poi al termine della struttura è una passeggiata tra libera e artificiale fino ad uno spit che, praticamente, è quasi mio coetaneo. Cece direbbe: “cos’è sta schifezza?!”. Io, a quel pezzetto di ferro arrugginito e segnato dal trascorrere del tempo, mi ci avvinghio, lo afferro, prima lo accarezzo e poi lo agguanto. Ci stabilisco la mia dimora in attesa che si illumini la lampadina per superare la placca successiva. Provo una volta, afferrando la fessura sulla destra e poi una bella orecchia a sinistra ma il successivo movimento senza piedi mi blocca. Torno quindi allo spit: forse staffando? La soluzione porta ad un nulla di fatto. Penso all’abbandono ma poi mi passano in mente tutte le mail strabordanti, gocciolanti vane parole di gloria, sogni, obiettivi irraggiungibili. Poi basta un passo poco sopra l’ultima protezione per decretare la fine di una salita; tiro fuori gli attributi e parto per il mio passo senza ritorno: agguanto la fessura, sistemo il piede e sono all’orecchia. Fin qui tutto già noto: spalmo i piedi, chiudo il sinistro e con la massima foga infilo il C3 in una fessura, rinvio e sono quasi salvo. Pochi istanti dopo, il cavaliere ha lasciato il destriero alle cure dello stalliere e si prepara al banchetto. Sotto i miei piedi ho un bel chiodazzo che guarda dall’alto l’ultimo baluardo oramai abbattuto. Da qui alla ferrata è solo questione tra la scalata e la ghisa delle braccia ma oramai la via ha abbassato i pantaloni e si lascia addomesticare senza alcuna difficoltà.

Sbuchiamo quindi poco sotto il sentierino che porta alla Bonatti e, pochi attimi dopo, siamo raggiunti da Cece e Silvia vittime degli incubi su Sogni Proibiti. È un rapido consulto di famiglia: la donzella acconsente a proseguire da sola lungo la ferrata mentre noi tre, veri uomini duri, ci buttiamo sulla facile Bonatti. Talmente semplice che dovremo lottare lungo tutti i tiri sotto la guida del caiano Cece prima di riuscire finalmente a camminare sul sentiero attrezzato che ci porta in vetta. Non avrei mai creduto di faticare così su questa linea già affrontata più e più volte, ma a questo punto non resta solo che allenarsi, allenarsi, allenarsi.


Cavallo Goloso


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