VIA DEI MORBEGNESI – SFINGE
domenica 05 agosto ‘18
Ci sono delle vie intorno alle quali ci giro per un’infinità di tempo in alcuni casi provando esplicitamente la salita, in altri semplicemente ricordandomi che esistono e che, un giorno o l’altro, le salirò. La via dei Morbegnesi rientra nella seconda categoria ma, in realtà, il piano per salirla salta fuori un po’ all’ultimo quando le bizzarrie del meteo ci sconsigliano di ritentare la Vinci al Ligoncio con salita, questa volta, dalla val Codera. Mi trovo quindi a passare gli archivi della mente per trovare qualcosa che si possa fare in giornata ma che, al contempo, sia anche un po’ caiana. E così alla fine, giusto per gironzolare nelle vicinanze dell’inafferrabile, viene fuori la montagna che fa compagnia al Ligoncio: pensato, detto e fatto ci ritroviamo al parcheggio ai Bagni con i soliti zaini che vomitano materiale alla volta della Omio. Oggi mi sento decisamente bene e motivato, fatto non del tutto scontato a pensare all’avvicinamento che ci attende ma, del resto, questo è il caianesimo.
Sotto la parete ci guardiamo intorno, naso all'insù come due sprovveduti turisti: dove diavolo passerà la via? Non so per quale motivo ma il mio cervello ha sempre creduto che la parete fosse la stessa della Fiorelli, così provo a convincermi che la linea passi lungo uno degli stomachevoli camini strapiombanti, superi un bel tratto di giardino pensile e poi rimonti da qualche parte a sinistra della via sullo spigolo nord. Già, come no? Decisamente c’è qualcosa che non torna, così giro l’angolo e “scopro” che la parete continua, decisamente più intrigante e affascinante. A quel punto trovare l’attacco è come rubare una caramella ad un bambino (come se l’avessi mai fatto!) e così mi ritrovo a salire i primi metri di parete. Scelgo una fessura inizialmente netta e facile che sale in direzione del diedro delle lunghezze seguenti, poi la spaccatura diventa svasa e io mi vedo con caviglie e tibie all’altezza delle ginocchia caso mai dovessi sfracellarmi sul ripiano sottostante. Solo che a questo punto ho un’unica soluzione: spingere sui piedi! Eseguo, guadagno qualche centimetro e finalmente piazzo il 2 a prova di bomba. Caviglie salve! Sui tiri seguenti adotto la tecnica del collage unendo ripetutamente due lunghezze; d’altra parte spezzare il diedro mi pare un abominio tanto è bella e lineare la linea da salire mentre i tiri successivi sono sempre piuttosto corti e così, con 4 lunghezze e dopo essere per l’ennesima volta scampato ad uno scontro con una cengia, arriviamo alla base dell’ultimo tiro. Parto carico (sia di materiale che mentalmente) e i primi due chiodi a pressione li supero a vista. Poi riesco a rinviare un classico chiodone ad anello, incastro il piede sinistro nella fessura e arrivo ad uno svaso maledetto. Terrà? Mi scapperà via? E allora inizio a pensare alle tre protezioni sottostanti: il chiodo sembra buono ma i due piantati nei fori a mano? Con la loro penetrazione millimetrica e gli oltre 50 anni sulle spalle non mi ispirano la minima fiducia: ho la scusa buona per tirare l’ultima protezione e agguantare il chiodo a pressione successivo! Peccato! Poi con grande agilità e sfruttando la super potenza da plasticaro, liquido l’ingresso aggettante dello stretto diedro finale e mi porto sulla cresta dove termina la via. A quel punto un vero, limpido e puro caiano avrebbe proseguito fino al punto più alto, l’immancabile e irrinunciabile vetta. A noi invece non ce ne frega niente perchè ci siamo già stati e l’idea di essere a casa prima di cena è uno sprone troppo forte. Così gettiamo le doppie e ce la spassiamo, insieme alle ginocchia, giù fino alla macchina.
Cavallo Goloso
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