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VINCI – LIGONCIO

domenica 23 luglio ‘17


Forse dovrei farmi chiamare “il Rinunciatario”: ancora adesso non riesco a spiegarmi il vero motivo per cui di fronte ad una normalissima staffata su friend, ho preferito girare i tacchi. Forse per uno strano presentimento, la paura di trovare bagnato anche più in alto, il timore di restare intrappolato nella tela della nord, di perdere il tracciato della linea o forse di non essere in grado di affrontare quei 600 metri di parete. Fatto sta che alla fine recupero i friend, arrivo al chiodo e mi calo in sosta.

Tutto nasce qualche mese fa, quando il Ricky si prenota per una caianata in un posto, tanto per cambiare, dimenticato da tutti: se tutto filerà liscio, porteremo a casa una vagonata di bollini, tanti da non sapere nemmeno dove metterli! Decidiamo di salire dalla Omio perchè ci pare la soluzione meno faticosa anche se saliamo al rifugio carichi come muli (perchè ovviamente l’idea è quella di dormire fuori e mangiare l’ennesimo risotto) e con un bel paio di scarponi da ghiacciaio ai piedi oltre ad un piccozzino e i ramponi nello zaino: sembrano le prove generali per la Walker! Già il sabato però, a discapito delle più pure intenzioni, ci facciamo corrompere dall’ottima accoglienza dei nuovi gestori e alla fine accettiamo l’offerta di restare nel bivacco evitandoci così la lavata notturna ma, di contro, non riuscendo ad ingraziarci pienamente il Caianesimo. Alle 4 la sveglia suona: fuori il cielo è completamente stellato e dopo mezzora iniziamo la nostra giornata. Fino al passo tutto sembra filare liscio: valichiamo in val Codera e iniziamo a scendere credendo che il sentiero si sposti verso sinistra, in direzione della nostra scura parete. Invece questo piega da tutt’altra parte continuando a farci perdere quota ben oltre il necessario tanto che, ad un certo punto, i dubbi iniziano a lievitare. Praticamente passiamo un centinaio di metri sopra il sassone che protegge il bivacco Valli e poi iniziamo nuovamente a salire fino alla base del canale innevato e da qui all’attacco della via. Sbrigata la pratica relativa al primo tiro, mi tuffo sul successivo, una lunghezza di cui alla fine sarò particolarmente invaghito tanto da affrontarlo ben 6 volte: 3 all’andata e altrettante al ritorno! Inizio a traversare per placca facile e lavorata ma senza riuscire a piazzare nulla fino ad arrivare sotto una fenditura sporca di muschi e licheni alla cui sommità penzola un chiodo. Salire da lì senza una protezione sarebbe come tuffarsi tra le braccia della morte, così provo a tornare sui miei passi senza che nemmeno nell’anticamera del cervello mi venga il dubbio di provare più a sinistra. Poi il Ricky mi avvisa che sopra la sosta c’è un bel chiodone che, ovviamente, non avevo visto. Forse che si debba passare sopra il tetto? Torno quindi indietro con l’idea di darci un occhio ma l’improbabile soluzione si rivela un altro salto tra le braccia della signora incappucciata e così riprovo nuovamente a sinistra. Questa volta guardo oltre la punta del mio naso per trovare, subito oltre, il facile diedro, un chiodone alla base e, più in alto, la fatidica sosta: dovremmo essere a cavallo! Non mi resta quindi che pensare alla lunghezza seguente: prima devo ripercorrere a ritroso il diedro e poi continuare ancora verso sinistra fino ad un sistema di fessure: indicazione piuttosto vaga! Tra l’altro la soluzione mi pare poco logica: perchè salire per poi dover tornare sui propri passi? Inoltre il sistema di fessure è subito dopo il diedro: avrei potuto benissimo predisporre la sosta qui evitandomi le noiose manovre della fermata. In ogni caso provo a proseguire lungo una fenditura con tanto di corda fissa: non so se sia più marcia la roccia o il cordone spelacchiato che sto inseguendo, fatto sta che mi trovo arenato poco sotto un diedro per nulla invitante finchè decido di tornare sui miei passi e sostare alla base delle fessure. Decidiamo quindi che la quarta lunghezza debba passare lungo la fessura a destra della precedente e così inizio a salire fortemente in dubbio per l’apparente assenza di chiodi finchè mi trovo davanti agli occhi un bel ferro arrugginito e, un po’ di metri più in alto e sopra il diedro che prima mi aveva respinto, il fratello gemello. Da un lato sono rassicurato ma dall’altro mi sento inadeguato per le perdite di tempo dovute alle mie titubanze eppure provo ad affrontare l’orco del momento piazzando quanti più friend possibili. Il diedrino però, oltre ad essere morfologicamente scorbutico, è pure ricoperto sul lato sinistro da un sottile velo d’acqua e avaro di appigli e appoggi. Dovrei tirare il friend ma mi sento bloccato: e se poi più avanti dovessimo trovare qualche altro passo lavato? Non stiamo rischiando di cacciarci in una trappola? Eppure basterebbe solo una staffatina per uscire dalle difficoltà. Sono in un completo stato confusionario, non riesco a decidermi. Guardo l’ora: sono da poco passate le 10: né tardi né presto. Anche il tempo sembra favorire questo mio remare in tondo. Alla fine opto per la soluzione più semplice ma, mentre sto levando i friend, ho ancora un forte dubbio: devo proprio abbandonare la nave? In fondo, a parte i continui andirivieni, fin qui è tutto filato liscio, senza particolari intoppi. Eppure sto scendendo appeso a quel chiodo e non intendo ritornare a salire. Mi rimane solo da affrontare nuovamente il traverso verso destra e poi, con una doppia, tornare all’attacco. Così per la seconda volta eccomi impegnato lungo il mio traverso Hinterstoisser. Ricky mi segue ma quando mi raggiunge, dopo aver fissato una delle due corde al chiodone alla base del diedro, porta con se anche una notizia lapidaria: il friend della sosta è rimasto incastrato nella fessura. L’uscita inizia a costarmi troppo. Siccome a quello strumento sono legati troppi ricordi, non mi va di abbandonarlo quassù, così torno per la terza volta sui miei passi e, dopo un po’ di lavorio, libero l’amico dalla trappola. Ora non mi resta che concentrarmi sulla successiva passeggiata tonificante mentre le ginocchia invocano inutilmente pietà.


Cavallo Goloso


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