CAVALLO PAZZO – SASSO CAVALLO
domenica 03 luglio ‘11
L’ennesima cavalcata programmata forse un po’ all’ultimo sembra andare in fumo ancor prima di materializzarsi, alla faccia dell’essere polvere e polvere ritornare! Ma per conciliare gli impegni del sabato sera e la voglia sfrenata di scalare, mi accontento di dormire in macchina poche ore al Cainallo (quale posto migliore per un caiano?) per poi raggiungere Cece e Luca al Bietti. Per sicurezza punto la sveglia del cellulare e le tre dell’orologio: il telefono non suona (cellulare mio, cellulare mio, perchè mi hai abbandonato?) e non sento le altre! Per fortuna ci si mette l’orologio biologico o la luce o la voglia di caianare a sussurrarmi “Francesco, alzati!”. Guardo il display dell’orologio e sono sul sentiero.
I due compari stanno ancora facendo colazione quando il sottoscritto, dopo la cavalcata, li raggiunge per andare al maneggio. Sinceramente qualche dubbio ce l’ho, tra l’altro le ultime uscite in falesia sono state piuttosto disastrose ma sono anche rincuorato dal nostro asso nella manica (Luca). L’attacco non è un problema da trovare: primo perchè è lo stesso di quello che avevamo usato per la Oppio, secondo perchè ho con me una relazione, scaricata da internet, precisa e ben fatta che descrive la prima lunghezza di Cavallo Pazzo. Non possiamo ricorrere a “carta, forbice, sasso” quindi ritiro fuori “mano nera, mano bianca” che decide che il primo a partire sarà Luca. Avrei voluto iniziare io da primo ma, col senno di poi, è stato meglio così: probabilmente saremmo ancora appesi a qualche sosta!
Che il primo tiro avesse un breve tratto da roulette russa lo si sapeva già; quindi è inutile descrivere la sicurezza con cui accarezzo le uova nella speranza che il guscio non si frantumi pur rincuorato dal mio casco vintage che ricorda, per forma, il cappello di Rockerduck. E poi entriamo nel rodeo (non posso parlare di lotta con l’alpe perchè sarebbe anacronistico anche se le prime lunghezze hanno caratteristiche tipiche caiane): Luca sale guardingo e ovviamente in libera fino alla sosta. Tocca a noi: il tettino lo voglio superare senza attaccarmi al rinvio e, infatti, lo afferro, ci avvinghio le dita, lo stritolo e poi supero il passo. Iniziamo bene. La fessura seguente è diagonale: annaspando, sbanfando e azzerando all’inverosimile, raggiungo la sosta. Il morale è sotto le suole delle scarpe e probabilmente sta già scavando, ma sulla lunghezza successiva mi risollevo: riesco a scalare e a rendermi conto che sarei passato anche da primo. Ma la spada di Damocle penzola ancora sulle nostre teste: alla fine delle due lunghezze successive il mio morale ci ha dato dentro con la trivella, ha raggiunto il centro della Terra ed è sbucato dall’altra parte. Sono una pentola di fagioli, un noioso depresso che continua a sbandierare la propria certezza sul fatto che lì da primo non sarebbe mai passato. Cece invece è nello spirito giusto: “staffando a destra e a manca, saremmo passati anche noi!”. Sarà, ma io continuo a rimestare i miei borlotti e mi prenoto come passeggero della salita. Ma Cece invece no: lui è libero dall’apprensione caiana. Lui ha capito che oggi non si caiana, oggi si cavalca! E quindi dà il cambio al capocordata e parte deciso per la sesta lunghezza: scala sicuro fino ad un passo duro e poi è tentato dal ripiegare ma dalla sosta giunge l’incitamento di Luca mentre i fagioli sono oramai stracotti; devo essere fastidioso e irritante come un’acne pustolosa che, nonostante la si schiacci, continua imperterrita a rifiorire. Cece prova e va; sale verso l’alto, supera il passo spinto dalle parole di Luca e forse contribuisce a darmi una scossa, fatto sta che spengo il fuoco sotto la pentola. Sarà quello che è appena successo o che la parete finalmente si è un po’ reclinata smettendola di divertirsi a dilaniare le braccia, fatto sta che mi sento un po’ più a mio agio. Nel frattempo Cece conduce per altre due lunghezze e mentre saliamo, sale anche il mio morale che finalmente sbuca dalla voragine e, guardingo, osserva ciò che lo circonda. Ho lavato le mie sensazioni negative un po’ come si fa con l’essenza di trementina in laboratorio e ora potrei essere pronto a prendere il testimone di Cece se non fosse che abbiamo davanti a noi il tiro chiave della via. Le corde ritornano in mano a Luca e lui riparte verso la sosta successiva. È una missione goldfinger nel senso che servono dita dorate per tenere quelle minuscole tacche e noi abbiamo l’uomo giusto che con agili movimenti supera il tiro.
Sono in fermento, lentamente e pazientemente Cavallo Pazzo ha lasciato il suo seme, un po’ come le api impollinano i fiori, e ora inizio a cogliere i primi frutti: passerei infatti volentieri davanti ma l’ennesima sosta appesa e decisamente poco confortevole ci consiglia di affidarci ancora alle dita di Luca che supera il tettino soprastante e ci porta alla S10 della Oppio. Siamo usciti leggermente fuori via e ora dovremo affrontare un bel tiro erboso: quale occasione migliore per prendere finalmente le redini della cordata? Del resto, da buon cavallo, l’erba non mi può che essere amica e così eccomi in un attimo ad afferrare i ciuffi verdi sperando che non mi rimanga in mano nulla ma oramai la massa di borlotti è fredda e inerme e io sono ben galvanizzato e così fiuto la traccia giusta raggiungendo rapidamente la sosta. Da questo momento non abbandonerò più la guida del trio. Guardiamo la relazione ma i conti non tornano: la sequenza dei tiri è mischiata regalandoci così un ulteriore pizzico d’avventura e quindi non ci resta che cercare di destreggiarci sulla parete come meglio crediamo. D’altro canto la linea di salita è facilmente intuibile e così ben presto mi ritrovo alle prese con un bel tratto impegnativo. Ovviamente non posso azzerare e quindi mi tocca ingegnarmi e scalare: sulla sinistra la roccia svela prese inaspettate che afferro e stritolo con tale forza di disperazione che non vorrei rischiare di frantumarle.
Ancora erba e poi raggiungiamo il pilastro terminale. La vetta è lì, pochi metri sopra le nostre teste, ma questa volta non sono galvanizzato vedendo il traguardo vicino, mi sento irrequieto, non sono sicuro di passare ma comunque parto. Salgo verso l’alto e supero la penultima lunghezza: forse potrei proseguire ma il diedro slavato soprastante un po’ mi preoccupa e quindi mi assicuro alla sosta e mi fermo. Ma alla fine i nodi devono venire al pettine e così eccomi alle prese con l’ultimo tiro; salgo lentamente senza lesinare a tirare il tirabile e alla fine raggiungo i mughi. La cima è al termine del prato e poi, finalmente, sotto i nostri piedi ma, forse per la stanchezza dopo 10 ore di parete o per il fatto che sono stato issato sui tratti più duri o forse perchè una salita degli anni ‘80, per un caiano, non fa curriculum, non riesco ancora ad esultare. È vero però che certe salite le gusti di più quando, seduto comodamente davanti al PC, pensi alla stupenda giornata passata in parete e finalmente puoi scrivere della triade equina: del Sasso Cavallo che si è lasciato salire dal Cavallo Goloso su Cavallo Pazzo. E mi vengono in mente le parole di Ligabue “cavallo da corsa, cavallo da soma, cavallo non ancora catturato”...
Cavallo Goloso
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