VILLIGER – SALBITSCHIJEN
domenica 28 giugno ’09
Capitolo 2
“Non si arrampica sul bagnato”
Quando partiamo dal rifugio, non c’è già più traccia delle gnocche svizzere né dei loro compagni; sono tutti già per il sentiero che
conduce agli attacchi. L’altro ritardatario, il sole, sonnecchia ancora dietro le cime, mentre la sua luce incendia la Salbitschijen che
finalmente ha deciso di mostrarci le rughe che ne incidono la pelle coriacea da vecchia signora.
Una di queste è il nostro ambito obiettivo, salita per la prima volta nel lontano ’59 (proprio ora che scrivo, mi rendo conto che questo
è il suo cinquantesimo: auguri!) e chiamata Villiger. Dicono che sia una delle imperdibili delle Alpi.
Camminiamo di buona lena e lentamente, cominciamo a scorgere altri omini colorati che sbucano tra i pietroni:
alcuni si rivolgono alla parete che io e Cece abbiamo salito il giorno prima (e che finalmente posso ammirare), altri invece puntano un po’
più a sinistra. Avremo compagnia?
Raggiungiamo il nevaio alla base della parete insieme alle gnocche svizzere, che però si rivolgono a linee diverse dalla nostra.
Solo una cordata è interessata alla Villiger, ma ha deciso di evitare i primi tiri, passando dalla Clock and Stock per poter raggiungere
la grossa cengia a poco più di un terzo della parete da cui poi immettersi sulla Villiger.
Noi siamo dei puristi. E quindi ci portiamo verso l’attacco originale. Per dir la verità, puntiamo all’attacco del secondo tiro, visto che
la neve presente ci permette di saltare la più facile prima lunghezza. La coltre nevosa è ancora dura e non c’è traccia di passaggio.
Inizio quindi la risalita della fredda coperta picchiando violentemente i piedi contro la coltre bianca cercando così di creare dei gradini
comodi, mentre aggiusto l’equilibrio aiutandomi con un sasso-piccozza. La progressione è molto lenta e faticosa; quando mi giro verso valle
sono colto da un forte senso di impotenza: ho la sensazione di essermi allontanato parecchio dal punto di partenza ma, in realtà, disto solo
pochi metri dalla ganda. Guadagno ancora qualche metro poi un piede scivola e io lo seguo a ruota. Sembra quasi di rivedere il film di ieri,
ma questa volta non c’è nessuno che può provare a bloccarmi, se non il sasso-piccozza, che però si rivela perfettamente inutile, e quindi le
unghia. Le rocce sottostanti si avvicinano sempre di più; faccio un breve salto e atterro sulla ganda. Questa volta ho rischiato di farmi male
seriamente, ma è andata bene: solo una botta insignificante sul fianco destro e nulla di più. E’ decisamente meglio che salga Cece con i
ramponi! Che pirla che sono stato.
Con i ferri ai piedi, Cece sale in un batter d’occhio la lingua nevosa, poi sparisce dietro il salto che separa la neve dalla parete per
riemergere a cavalcioni di un grosso masso in perfetto stile dry-tooling.
Assicurati dall’alto, possiamo salire anche io e Silvia e quindi recuperare Vera. Ci attende una doppia obliqua per raggiungere la sosta.
Inizio io: il primo tratto, su roccia, non mi crea alcuna difficoltà. Poi però devo saltare sulla neve: tra questa e la parete c’è un buco
che riesco a superare solo aiutandomi con una falcata impressionante. Mi ritrovo quindi a pattinare sulla dura e fredda coltre bianca;
afferrando con le mani la parte alta della neve che borda l’inghiottitoio verso la roccia, riesco lentamente a spostarmi verso sinistra.
Ora devo ritornare sulla roccia, ma la voragine che mi separa è molto profonda. Scivolo in continuazione poi, più con la forza della
disperazione che ricorrendo a qualche tecnicismo, guadagno alcuni buchi nella neve da cui riesco finalmente a passare sulla roccia.
Finalmente sono in sosta! Ora non mi resta che attendere l’arrivo dei miei compagni reso un po’ più semplice dalle corde già direzionate.
Nel frattempo il sole ha deciso di scappare dalla valle, lasciandosi coprire da alcune nuvole fastidiose che ci fanno ricadere in condizioni
molto simili a quelle di ieri.
Visti i numeri per raggiungere l’attacco, decidiamo di partire ugualmente pur sapendo che difficilmente riusciremo a portare a casa la via.
Le cordate saranno così composte: io e Vera, Cece e Silvia. Inizio io: i primi metri sono addomesticati da due spit e un chiodo, ma devo
appoggiare i piedi sulla roccia bagnata quindi (anche per non perdere ulteriore tempo prezioso) tiro tutto il tirabile. Poi devo rimontare
lo spigolo che mi permetterà l’accesso all’enorme diedro lungo il quale corre tutta la lunghezza. Solo grazie alle indicazioni di Cece riesco
ad acchiappare il cordino attaccato allo spit proprio dietro lo spigolo. Entro così in questa grossa ed umida fenditura che ha, sulla faccia
destra, una netta cicatrice lungo la quale corre la via. La giunzione tra le due facce del diedro è corsa da un rivolo d’acqua che alimenta
alcune erbe molto simili a delle alghe come poi dirà Silvia. I piedi spesso lavorano sul bagnato, ma finchè ho in mano la fessura, non ci sono
problemi. Peccato che poi il tiro mi riservi dei tratti d’arrampicata delicata dove appoggiare le scarpette su rugosità insignificanti: con la
suola bagnata non è certo una situazione piacevole! Devo quindi ricorrere ad un sapiente uso di dadi e friend che si infilano più volte nella
fessura, alternandosi alle protezioni già presenti. Lentamente guadagno metri preziosi, fino a raggiungere uno spostamento delicato con spalmo
su suole umide che mi permette di urlare “sosta!”. Inizio a recuperare le corde a cui, oltre a Vera, si è attaccato anche Cece: in effetti,
viste le condizioni (meteo, ora e parete), è meglio progredire con un'unica cordata da quattro, diminuendo così i rischi.
Appena Vera e Cece sono in sosta, mi preparo per il tiro seguente: da qui sembra più facile del precedente; mi devo incastrare in una fessura,
superare un tetto e quindi proseguire su placca a risalti. Speriamo che la roccia sia asciutta!
Mentre Cece assicura Silvia e Vera tiene il sottoscritto, mi infilo nella stretta e umida fessura: mi sembra di rivivere la salita di Cunicolo
Acuto in Val di Mello. Tengo un sasso incastrato nell’attesa che il suo dondolio si tramuti nel distacco dell’appiglio, mentre con i piedi
cerco di guadagnare qualche prezioso centimetro che mi permetta di raggiungere il chiodo. Ma mi mancano ancora dei centimetri preziosi.
Cece offre la sua spalla, ma non riesco a sfruttarla a dovere rimanendo sostanzialmente nella stessa posizione.
Poi il sasso si stacca e mi cade sul piede. Oggi sono fortunato: nonostante l’inconveniente, non mi sono fatto male e quindi proseguo
imperterrito nei miei tentativi. La soluzione arriva solo impiegando un micro-nut che si incastra perfettamente in una fessura minuscola.
Blocco il piede nella spaccatura e, nella speranza di non cadere, guadagno il chiodo e poi, più facilmente, lo spit superando così il tetto.
La roccia è coperta da un sottile rivolo d’acqua, ma davanti a me ci sono diverse protezioni fisse e possibilità di integrare. Ricorrendo
più a numeri circensi che all’arrampicata da manuale, supero metro su metro, tuffandomi ogni volta in una nuova avventura che termina quando
arrivo al chiodo successivo. Sono piuttosto teso e, quando Vera mi dice che dovrei fermarmi prima possibile perché le corde sono “incasinate”,
non le rispondo col miglior galateo.
Poi continuo la mia progressione con velocità che potrebbe tener testa a quella di un bradipo: scopro alcuni chiodi nascosti e la tensione
diminuisce un po’. Poi raggiungo un altro passaggio infido su roccia sempre rigorosamente lavata.
A destra e a sinistra, beffarda, la parete sembra decisamente più asciutta; ma da qui non ci si può spostare se non sulla verticale. Devo
ricorrere ad una staffa, per poi appoggiare un piede su una tacca ricoperta da un sottile velo d’acqua. Devo fidarmi a caricare il piede,
mentre le mani non tengono nulla di veramente buono, se non un buco fradicio e una fessurina scivolosa e beffarda. Mi decido a caricarlo e
la scarpa sta lì! Con un sospiro di sollievo guadagno la protezione seguente: mi attende un ultimo tratto più semplice ma sempre bagnato
prima di raggiungere la sospirata sosta all’inizio della cengia.
Quando sono al termine della lunghezza, vedo la cordata svizzero-tedesca che attacca il primo tiro dopo la cengia; alla fine, non sono stati
molto più rapidi di noi, considerando che non hanno trovato le nostre difficoltà per raggiungere l’attacco e che la linea da loro seguita è
più semplice della nostra. Riesco a studiare un tratto della parete anticipando la nuvolaglia: non si scorge traccia d’acqua né d’umidità.
Ma oramai è tardi e, chi più chi meno, siamo provati per le ultime ore di alpinismo. Superiamo quindi la cengia e, un po’ a malincuore,
decidiamo di calarci dalla parete, consci di aver superato, molto probabilmente, le maggiori difficoltà opposte dalla via. Ma questo è solo
un arrivederci…
Cavallo Goloso
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