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SEZIONE AUREA – MEDALE

sabato 18 febbraio ‘17


La via se ne sta lü tranquilla a sonnecchiare godendo del tepore dei raggi solari che iniziano ad illuminare la sottostante città di Lecco. Sembra che nessuno sia interessato a quella linea di roccia compatta che si snoda tra i blocchi e gli arbusti circostanti come percorso sicuro in un campo minato: sarà un’altra giornata di pura noia? Chi sono quei due puntini che si alzano nel bosco? Forse l’ennesima cordata che vuole sperimentare l’ebbrezza della lastra di burro della Cassin? La Sezione non può immaginare che sia iniziata l’era dell’FF da parete, la raccolta dopo la lunga semina tra falesie e prese di plastica. La nostra idea è semplice ma chiara: o si scala o si torna indietro! A dire il vero spero di tornarci in ogni caso dopo aver salito i primi 6 o 7 tiri e lasciare gli altri per un secondo assalto. Non ci poniamo l’obiettivo della vetta ma quello di visionare la prima metà della via per cercare di salire il più possibile in libera. L’aquila volta lo sguardo sdegnata verso le Crolloniti: chissà se mai ci rivedrà su quelle crode?

L’inizio non è dei migliori: sarà per lo zaino sulle spalle, sarà perchè non ho finito di svegliare tutti i sensi, sarà che siamo proprio all’inizio, fatto sta che non mi sento adeguatamente sciolto. Come potrò rispettare il patto della libera estrema? Intanto raggiungo Cece in sosta e guardo ciò che mi aspetta: il palo! Muro verticale con prese rare come i soldi nel mio portafogli e, dulcis in fundo, un bel moncone di albero ideale per fare lo spiedino in caso di volo! Provo a capire i movimenti ma parliamo una lingua diversa. Intanto mi preoccupo di rinviare il primo spit. Scovo l’appoggio (in realtà non molto difficile vista la carenza di asperità) ma non capisco come usarlo. Situazione vecchia, tecnica antica: tiro il rinvio e piazzo quello successivo. Il moncone legnoso libera una smorfia di disapprovazione; la mia schiena invece non è dello stesso parere. Nel complesso perö la situazione non cambia: non è proprio una salita da mungi e tira, però sono ben lontano da scalare il tiro. Poi arriva una fessura verticale con spit sulla placca a destra. Non ce la faccio, l’istinto è troppo forte: piazzo un friendino e salgo là dove l’aquila indica la via raggiungendo la sosta.

Quello che mi sta davanti non è proprio piacevole: oddio, la parete è una specie di opera d’arte ma, per poterla comprendere, bisogna essere dei critici provetti e non un imbrattatele che usa il pennello come la zappa. D’altro canto mi consola il fatto che sarà Cece a doversi smazzare il rompicapo mentre il sottoscritto, con la corda ben tesa, forse potrà anche far finta di fare l’Ondra. L’amico parte e ha ben poco da fare l’FF: tecnica caiana e via andare anche se poi qualche passo di scalata è costretto a cavarlo dal cilindro; arriva quindi sotto la base di un tettino ma poi si arena. Prendo le corde e, con estrema titubanza, risalgo fino al massimo punto: scovo una tacca e continuo a salire fino alla sosta. La prestazione mi galvanizza e fa scattare il bottone che libera il flusso mentale da FF. Sulle due lunghezze seguenti riusciamo a scalare anche se sul diedro fisico spesso faccio il panno appeso allo spit nella vana speranza di dare un sollievo alle braccia. La ghisa però non è dello stesso parere e ben presto mi ritrovo con due pezzi di marmo al posto delle braccia; così zavorrato raggiungo il termine del tiro lasciando poi la successiva incombenza a Cece. Sono quindi beatamente in attesa che l’amico completi il lavoro quando una notizia pesante come una pietra mi arriva all’orecchio: manca la piastrina di uno spit! Non vorrei essere nei panni del malcapitato capocordata: saltare la protezione proprio dove la roccia strapiomba è un po’ come infilarsi con una salsiccia in un canile e sperare di non farsi azzannare. Sto per mandare su un nut da infilare sulla boccola quando l’amico si ribalta sopra lo strapiombo e, poco dopo, lancia il grido liberatorio: “sosta!”. Quando lo raggiungo un treno di ricordi mi passa per la testa: da qui ci siamo calati dopo il tentativo alla Formica, prosciugati dalle protezioni e da un percorso ben più al cardiopalma di quello di oggi. Saluto il passato e mi tuffo nel futuro: un bel traverso verso sinistra dovrebbe essere l’anticamera per i tiri di artificiale e, probabilmente, la fine della nostra avventura. In realtà mi porto un po’ avanti: le braccia scolpite da Michelangelo non sono di grande aiuto e io avanzo con il continuo terrore di trovarmi nei panni del braccio del pendolo, col risultato che mungo ancora una volta. Alla sosta poi ricevo l’ultima mazzata: da qui non ci si cala a meno di voler lasciare materiale in parete. Ovvio che la nostra taccagneria non ci permetta una simile soluzione e quindi non possiamo che continuare a spingere verso l’alto. Ora perü le carte in tavola sono cambiate: stanchezza e orologio che ha iniziato a fare Bolt ci consigliano di abbandonare ogni ambizione da FF e tornare al classico e abusato caianesimo. Cece parte, azzera, staffa, supera lo strapiombo poi si ricorda che siamo qui per arrampicare e così risolve i metri finali prima della sosta dove inizia a piovere sul bagnato: anche a questa fermata non è possibile scendere! L’aquila sembra averci giocato la sua vendetta, un piatto gustato ben freddo. Riprendo quindi a salire e, quasi subito, a staffare finché, un’azzerata dopo l’altra, arrivo ad un passo troppo lungo. Piazzo un salvifico C3, ci staffo sopra (non senza qualche patema) e arrivo allo spit successivo. Il resto della salita non ha storia: rincorriamo prima gli spit e poi una roccia sempre meno accattivante finchè, dopo una giornata lavorativa di lotta e da poco superata l’ora del tè, l’unica cosa che abbiamo sopra le teste sono i rami scheletrici degli alberi mentre sotto resta l’enigmatico mistero della Sezione Aurea che le nostre menti ignoranti da trogloditi dell’arrampicata non ci hanno permesso di risolvere.


Cavallo Goloso


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