FORMICA – MEDALE
sabato 09 febbraio ‘13
Che la lotta con l’alpe abbia inizio: ta; ta, ta, ta; ta, ta, ta; ta, ta, taaaaaa! (musichetta iniziale di The Final Countdown). Arriviamo al parcheggio dove non c’è traccia di nessun caiano; noncuranti della cosa, ci prepariamo per il combattimento mentre Cece ricorda: “Messner dice che il quantitativo di materiale è inversamente proporzionale alla capacità di un alpinista!”. Mi sento una caccola ma me ne frego e, con il mio tintinnante armamentario, mi avvio verso il Medale.
Big wall. Sembriamo diretti ad una big wall; e pensare che non abbiamo nemmeno raddoppiato la serie di friend! La parete rispecchia il parcheggio: vuoto assoluto; strano: è l’orario del caiano medio (beh, ovvio, eccetto Fabio che sarebbe già in zona da 1 ora!) e il cielo è un perfetto telo azzurro. Individuato velocemente l’attacco (facile, del resto è proprio a sinistra del Pescecane e subito prima della Cassin), iniziamo i preparativi finali prima del via dello starter. D’altro canto, ci tocca: oramai le abbiamo quasi fatte tutte e ora, è ovvio, bisogna tirare una riga anche sulle vie reiette, almeno su quelle dove il rischio è accettabile!
Come di consuetudine, inizia Cece e subito è gioia e giubilo: chiodo vecchio, erba e arbusti rinsecchiti custodiscono l’accesso ad un diedro scorbutico; solo la roccia stona un po’: grigia e compatta, insomma nulla da invidiare con le più ripetute vicine! La corda fila lentamente, Cece supera uno strapiombino mentre ripetutamente tesse le lodi delle “stupende” protezioni che incontra. Quindi sparisce alla vista mentre le lancette dell’orologio proseguono la loro corsa da centometristi. Passano i minuti e all’orizzonte non si scorge anima viva finchè finalmente sento il comando tanto atteso che mi fa entrare nel vivo della battaglia. Scalo a volte inorridendomi per quei vecchi chiodi che, a dire marci, si farebbe quasi un complimento: il primo è infisso insieme ad un cuneo di legno e lo saluto mentre mi chiedo chi dei due sostenga l’altro; più in alto un altro sembra più trattenuto dal fango che dalla roccia. Per fortuna che tra i due ci sono altre protezioni degne di tal nome! Raggiungo Cece che, esausto, ha sostato su un luccicante resinato di Poseidone; dopo quello che ho visto (e sarà solo un antipasto!), non mi pongo alcun dubbio su quella sosta su una solo protezione; una sana, intonsa protezione moderna. Ah, la tecnologia!
Parto dal resinato e supero i pochi metri che mi separano dalla sosta e poi apro le porte del formicaio. La relazione parla di un diedro erboso; ne ho due davanti: uno netto, verticale e duro; l’altro più a destra, solo accennato, simile più ad una rampa che sale nel marcio. Scelgo il primo confortato anche da un cordone (marcio pure quello!) che penzola più in alto. Informo quindi Cece che qui sembra duro, piazzo un bel friend e supero in libera il passo iniziale entrando pienamente nella struttura: tiro un po’ di dulfer, scarico bene il peso e il bel diedro è sotto i miei piedi. Ora le preoccupazioni sono rivolte verso l’alto, al muro bianco che sale dalla cengia erbosa dove mi trovo. Ma quello è un problema di Cece!
Il forte amico parte dalla sosta e risale verso un primo cordino. Ginepro: è la prima volta che lo vedo tirare questa specie arborea mentre lo sento decantare i pregi di un altro cordone macilento annodato intorno le radici della pianta. Cece sale oramai noncurante dello stato delle protezioni, raggiunge un’orripilante vecchia sosta ma, in base alle nostre informazioni, il tiro prosegue ancora un po’. Supera quindi un delicato passo in libera e poi finalmente si ferma, questa volta su uno stupendo, magnifico spit.
Nel frattempo, molto più a sinistra, compaiono le sagome di altri due caiani, impegnati su un’altra classica, la Boga! Incredibile, si contano solo due cordate su tutta la parete e entrambe alle prese con linee non proprio comuni: è un inno al caianesimo extreme! Nel frattempo, raggiungo Cece lasciandomi inorridire da quella che era la sosta originaria: un insieme di fil di ferro, chiodi e spit artigianali degni del museo degli orrori. Li guardo col voltastomaco appeso alla sicurezza della nostra sosta e poi mi rivolgo al mio futuro. Ho davanti a me un muro verticale, completamente liscio e martoriato da un’accozzaglia di chiodi a pressione, spit e rivetti. Certo che in quanto a fantasia, gli apritori non si sono fatti mancare nulla!
Saluto Cece e mi avvio al mio destino: delicatamente raggiungo un kevlar intorno ad una clessidra; estraggo le staffe e, solo salendo sull’ultimo gradino e sfruttando i miei quasi 190cm, raggiungo il chiodo a pressione. Lo testo e poi carico la staffa che penzola dal nuovo punto di assicurazione. Praticamente l’operazione si ripete migliaia di volte su tutto il tiro, intervallata solo da un paio di passi in libera su difficoltà comunque non elevate. Ogni tanto qualche chiodo infonde dubbi sulla sua robustezza ma, nel complesso, la chiodatura non è poi così da incubo. In realtà è solo un pizzico di assaggio di quello che ci aspetterà dopo!
Una staffata dietro l’altra raggiungo quindi il diedro di Poseidone con la sua filata di lucenti fix: noi sul marcio e pochi metri più a sinistra la sicurezza del moderno, interessante antitesi! Ovviamente mi fermo sulla sosta di Poeidone (va bene essere nostalgici ma completamente fuori di testa no!) e recupero Cece.
Sono deciso a proseguire anche perchè mi seccherebbe non poco lasciare l’avventura incompiuta, e così Cece inizia il sesto tiro; la Formica spalanca le fauci mentre le due prede si infilano dentro la sua ugola. Il capocordata sale il diedro, quindi la fessurina successiva e poi inorridisce; davanti a lui c’è una sosta fatta da cordoni intorno ad una clessidra ma senza possibilità di integrazioni. Mi chiede notizie della lunghezza successiva ma le informazioni che gli arrivano non sono di suo gradimento: il suo tiro è dato di 15m, quello dopo di 45m; con le corde da 60 siamo al limite e, viste le protezioni, non è certo il caso di trovarsi costretti a fare tratti in conserva!
Lascio la sosta mentre dall’alto mi giunge il rincuorante comando: “non appenderti troppo!”. Mi impegno al massimo e salgo come fossi da primo e quando sono quasi in sosta Cece mi dice: “c’è anche Brontolo!” “Brontolo?! Prego?”. Guardo nella nicchia con aria stupefatta finchè non scorgo proprio Brontolo!
Lasciato il folclore da parte, preferisco non approfondire lo stato della sosta e riprendo la scalata. La Formica chiude le sue fauci. Baldanzoso lascio Cece a rimirare i cordoni e mi avvio lungo il traverso; raggiungo il diedro su roccia spettacolare a gocce e salgo fino allo strapiombo soprastante. A quel punto, la qualità della roccia smette di essere la mia preoccupazione: l’ultimo chiodo è circa un metro sotto i miei piedi (o forse anche qualcosa di più) e l’orripilante prossima protezione sogghigna ben più in alto mostrando una fila di denti storti e fortemente cariati. Mi guardo intorno e non vedo possibilità di proteggermi, a meno che il ciuffo d’erba sulla destra non nasconda il chiodo della salvezza. Il chiodo non lo trovo ma al compenso scovo del fil di ferro arrugginito (ma va?) legato a qualcosa di cui ignoro la natura. Lo rinvio, tanto non ho nulla di meglio e osservo il passo che devo superare per agguantare il chiodo successivo: ricorda la mossa per mettere la piastrina sulla Zanetti, solo che qui l’ultima protezione, solo a guardarla, viene via. Prendo quindi la canna strapiombante di destro, alzo i piedi e, in lolotte, raggiungo il chiodo. Oggi è la mia giornata fortunata: subito a destra ci sta un bel Camalot del 2, a prova di bomba. Mi viene in mente Luca su Buon Presagio: “quello tiene su un tir!”.
Posso soffermarmi sulle prossime scene del film dell’orrore: un chiodo a espansione collegato con un cordino e una fettuccia allo spit successivo; raggiungo il chiodo successivo (sempre ruggine ovviamente) e apro la settimana enigmistica. Il rebus di oggi prevede il superamento di un muretto leggermente strapiombante: riesco a piazzare due friend mentre le braccia si ghisano sempre di più. Provo un paio di volte finchè scovo la soluzione: aggirare verso sinistra il muretto oltre il quale si nasconde l’ennesimo cordone marcio. Salgo qualche metro e finalmente raggiungo un chiodo affidabile. Ho le braccia completamente a pezzi mentre intuisco e spero che la sosta sia pochi metri più a sinistra, su una comoda cengia. Cerco di sghisare, supero un paio di passi in libera e raggiungo un chiodo; subito a sinistra c’è un decrepito cordone : lo ignoro (nel senso che non lo tiro), afferro una presa poco oltre e rinvio la successiva fettuccia sbiancata dall’età senza appurare a cosa sia collegata. Allungo il piede sinistro ad un gradino, carico il peso e, urlando tipo un giocatore di tennis (con la differenza che se sbaglio qualcosa, la zip alle mie spalle si apre in un lampo facendomi precipitare sotto le chiappe di Cece), raggiungo la salvezza! Basta, per oggi basta: sono morto (fisicamente e psichicamente) è ho rischiato di finire disteso sotto due metri di terra. Meglio non pungolare troppo la dea bendata!
Recupero quindi Cece che, sbanfando e ragliando, si allontana dall’orrida sosta informandomi poi che il fil di ferro, senza neanche troppo tirare, gli è rimasto in mano! Nel frattempo però il lavoro del riposo da i suoi frutti e, se da un lato resta l’idea di scendere dalla comodissima e vicinissima Sezione Aurea, dall’altro si risveglia la voglia di proseguire, in fondo mancherebbero due tiri (evitando, certo, di continuare lungo il percorso originale) per poi uscire sulla ghigliottina della Bianchi che, se già era marcia nel ‘98, non credo nel frattempo sia migliorata! Quando però Cece mi raggiunge è nelle stesse condizioni in cui versavo pochi minuti prima e così, un po’ a malincuore, sfiliamo la testa dal patibolo e gettiamo le doppie lungo la salvifica via moderna dopo un viaggio nella storia ma, soprattutto, della psiche!
Cavallo Goloso
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