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SALLUARD – PIC ADOLPHE REY

sabato 06 giugno ‘13


Sono felice ma al contempo un po’ deluso: la mole del Bianco si staglia dietro il Capucin che svetta a pochi metri dalla nostra guglia; giusto il tempo di scattare un paio di foto e poi dobbiamo iniziare la nostra rocambolesca discesa dal Pic Adolphe Rey per poi schizzare nella speranza di prendere l’ultima funivia.

Tutto è iniziato o forse si è concluso ieri quando dal Falier mi han dato la brutta notizia: “c’è ancora neve sulla cengia; l’unica via asciutta è don Quixotte”. Grazie, è l’unica che ho già fatto! Provo allora con il Vazzoler dove mi dicono che la Trieste è pulita ma scartiamo l’ipotesi causa incasinamenti lavorativi di Colo. E allora puntiamo a ovest sognando la diretta americana al Dru: l’astinenza gioca brutti scherzi! Ma anche qui c’è un sacco di neve, probabilmente la parete è bagnata e quindi è meglio aspettare. Non resta allora che la Bonatti al Gran Cap e dal Torino, finalmente, sento ciò che voglio mi sia detto: le pareti sono pulite e ci stanno scalando già da un paio di settimane!

Peccato che Cece resti inamovibile e di ritornare a tirare quei chiodi proprio non ne ha voglia! Così mi metto in auto senza avere chiaro dove i due hanno deciso di arrampicare ma con la netta sensazione che i sogni di gloria caiana dovranno essere ridimensionati.

Il saccone mi stritola le spalle ma, se non altro, ho la certezza di dormire al caldo mentre Colo e Cece batteranno i denti visto che al rifugio non c’è più posto! Così, maledicendo a tutto spiano questa inconcepibile e incomprensibile usanza della prenotazione “a tutti i costi” dei rifugi, attendo che la Combe Maudit si apra davanti ai miei occhi per potermi liberale del pesante fardello, nonché quarto silenzioso componente della nostra spedizione. Da lì, praticamente di corsa e cercando di stare dietro a quel forsennato di Cece, ci involiamo verso il Pic Adolphe Rey mentre divoro con sguardo sognante il cappello del Capucin.

Grazie alla magnanimità dei due compagni, ottengo il lasciapassare per salire da primo e, fremendo dall’impazienza, mi sparo quasi di corsa il primo facile tiro: roccia! Roccia! Finalmente roccia! E che roccia: il granito rossastro del Bianco scivola sotto le scarpette mentre mi allontano dal ghiacciaio seguendo le logiche sequenze di fessure che salgono verso l’alto. Ovviamente non mi faccio mancare qualche mungitura, segno evidente che i voli pindarici sul Dru mi avrebbero portato, quasi certamente, all’ennesima sconfitta. Ma pur essendo l’ardimento il sale del caianesimo e costatato che il piatto di oggi sarà un filo insipido, resta il fatto che finalmente potrò rimpinzarmi con una giornata spaziale e puntando tassativamente alla vetta! Ed è proprio forse questa astinenza che ci spinge verso l’alto e a guadagnarci la cima: Cece è passato in testa da un paio di lunghezze quando la Salluard si sposta sul versante nord facendoci entrare in punta di piedi nell’anticamera del Bianco. Sulla parete riposano infatti piccoli cumuli di neve che fortunatamente non disturbano eccessivamente la scalata pur aggiungendo un pizzico di pepe alla salita. Ma il bello viene dal fatto che, puntando alla vetta vera e propria, non potremo scendere dalla linea di salita e tornare quindi dove abbiamo lasciato zaini e scarponi. Di conseguenza, continuare verso l’alto, significherà dover poi superare un tratto di ghiacciaio con le sole scarpette!

Se da un lato la cosa mi da qualche preoccupazione, scaravento nell’abisso ogni consiglio della codarda previdenza e lascio gioco facile alla spregiudicatezza e così spingo deciso per puntare là dove guarda il caiano! In realtà la discussione non ha nemmeno luogo: l’odore di bollini si fa troppo insistente e quindi noi puntiamo decisi alla vetta dove abbiamo appena il tempo per le classiche foto di rito per poi ributtarci nell’avventura e tornare sul ghiacciaio. Districandomi tra alcuni crepacci che si aprono come bocche fameliche sotto i miei piedi e ringraziando la neve morbida, ritorno sano e salvo agli scarponi. Ora, un po’ come all’andata, devo stare dietro al ritmo forsennato di Cece che, evidentemente, non ha alcuna intenzione di passare la notte a battere i denti a 3000 metri: squagliandomi come un ghiacciolo al sole, recupero il quarto componente e, per quanto possibile, mi involo verso l’ultima funivia.

Così, mentre la cabina ci riporta velocemente nella calura di Courmayeur, solo lo spettacolo della cresta di Peuterey frena le mie maledizioni verso il rifugio e il suo gestore eccessivamente calatosi nei panni dell’albergatore mentre la mente si proietta già in futuri voli pindarici.


Cavallo Goloso


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