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ANOTHER DAY IN PARADISE – BADILE

sabato 06, domenica 07 agosto ’16


Già l’aver deciso il posto del ritrovo e la montagna dove andremo a caianare può essere considerato un gran risultato, poi se staremo al di qua o al di là del confine è ancora tutto da vedere. Intanto, si riforma la coppia per eccellenza, seppure uno dei due caiani (Cece) si stia corrompendo avendo oramai accoppiato all’aquila due vigorose “F” evidentemente stonanti con erba, marcio e tiraggio di chiodi. Per l’altro (il sottoscritto) invece, il nobile volatile ha oramai gettato la spugna: stufo di tanti blateramenti che per lo più non portano a nulla, non ha ancora deciso di abbandonarne il petto solo perchè ogni tanto riceve qualche minima glorificazione anche se poca cosa rispetto quello che i barbuti e austeri patriarchi si aspetterebbero.

Ci troviamo dunque al Fuentes sapendo solo che rivolgeremo le nostre attenzioni all’elegante Badile ma ci guardiamo in faccia a lungo prima di decidere di dirigerci verso l’ombroso e freddo versante nord senza d’altra parte riuscire a raggirare il Caianesimo che tutto sa e vede: infatti l’idea di andare sul lato Svizzero è spinta solo dall’avvicinamento decisamente meno sbatta rispetto la mazzata che ci attenderebbe in val Masino! Per il resto, almeno per noi, scalare una via a sud o a nord fa poca differenza, tanto il parco giochi ha un’offerta tale che al confronto Disneyland è un luna park da paese!

Intanto il primo vero problema è il pedaggio della strada per il Laret: entrambi abbiamo infatti scordato di rompere il maialino e nel portafogli ci troviamo con ben poche monetine. L’unica quindi è rientrare in Italia e trovare qualcuno disposto a cambiare una banconota da 10, impresa che al momento non ci pare poi così titanica. Non so come, riusciamo a evitare che, alla richiesta in dogana sulla nostra provenienza, segua apertura del baule e relativa perquisizione; d’altra parte, anche alle mie orecchie, la risposta che fornisco sembra quanto meno ridicola: “eh... a dire il vero, arriviamo da Como (e già qui ci si dovrebbe chiedere per quale assurdo motivo stiamo uscendo dalla Svizzera per rientrare in Italia)... stavamo andando in montagna (probabilmente se avessi parlato di Badile mi sarei trovato con la faccia schiacciata sul cofano della macchina e il poliziotto a leggere i miei diritti!) ma dovremmo cambiare i soldi per il pedaggio...”. Il militare ci guarda con certa stizza e poi fa segno di passare. Andata! A quel punto però ci scontriamo con l’accoglienza di Castasegna: o è appena passato il parroco a benedire o ci troviamo di fronte ad uno dei pochi casi di sfrenato utilizzo di carte di credito. Nessuno sembra in grado di cambiarci questi maledetti 10 Euro! Proviamo ancora più in basso e alla fine, la nostra questua arriva a segno; alla peggio, avrei comprato un piatto di pizzoccheri e sciatt take away (poi sai che bello spararsi il sentiero del Sass Furä con un simile peso allo stomaco!) oppure saremmo andati dal parroco di Castasegna per il cambio!

Al parcheggio, svuoto il bagagliaio e lo zaino: comprimo tutto, infilo, schiaccio e spingo e mi formo il basto da portare. Per i primi due o tre passi non pare nemmeno troppo pesante poi lentamente inizia a tagliare le spalle, a segare le ossa nel disperato tentativo di fiaccarmi a terra. Credo che in fondo abbia una certa indole da lottatore di sumo! Arranchiamo su per il sentiero riuscendo pure a domandarci come diavolo avranno portato travi e assi per fare le accurate scale di legno che ci massacrano i polpacci. Mi pare anche di fare congetture sensate, segno che il cervello è ancora ben ossigenato: allora il lottatore di sumo prova ancora più pesantemente a schiacciarmi sul ring. Al rifugio prendiamo l’acqua, l’unico comfort che fino a quel momento non avevamo sulla nostra schiena e poi riprendiamo a salire. Già, perchè per una volta, anche il caiano-FF bivaccherà sotto le stelle: sarà forse per ingraziarsi il Caianesimo?

Saliamo inesorabilmente verso la parete tanto da sorgermi il dubbio che Cece voglia godersi una bella ronfata proprio sotto l’attacco, invece l’amico sta solo raggiungendo la suite prenotata direttamente su Booking. Del resto di avventori ne troviamo diversi ma nessuno ha una camera bella e comoda come la nostra: un enorme lastra di granito, simile ai menhir di Obelix, fa da perfetto riparo ad un ripiano in terra protetto sui due lati aperti da altrettanti muretti a secco. Mangiamo la lauta cena (focaccia con patate e un bel pezzo di grana) e, pensando al piatto di pizzoccheri e sciatt, mi abbandono tra le braccia di Morfeo.

Alle cinque ho la prima sveglia seria: qualche irrequieto buontempone passa infatti nelle vicinanze parlottando del più e del meno. Come minimo, farò reclamo sull’insonorizzazione della camera! Poi alle 6 arriva anche il nostro turno: raccattiamo la nostra mercanzia e, dopo una quarantina di minuti, siamo sotto la parete. Ora, va bene la cautela, ma averci rotto le balle alle 5 mi pare proprio un po’ esagerato! In effetti, alcune cordate sono già a metà dello spigolo: evidentemente hanno un senso dell’autolesionismo simile ai 5 di Valmadrera!

A suon di “bah!” e “mah!” ci travestiamo da alberi di Natale e, belli tintinnanti, iniziamo a superare la cengia che qualche anno fa ci aveva rigettato indietro. Oggi la situazione è ben diversa: il generale inverno ha infatti dimenticato solo un grosso blocco di neve compatta dalle dimensioni ciclopiche ma che non dovrebbe ostacolarci il passaggio. Alla peggio, questa volta resteremmo sommersi e spetasciati in una tomba di ghiaccio dall’effetto schiaccia-sassi. Passiamo quindi prima sotto un ponte di neve e poi tra la tenaglia formata dall’iceberg da una parte e la parete dall’altra: sono più estasiato che inorridito, mi viene in mente il racconto di Hillary sull’omonimo gradino all’Everest. Sono proprio caiano!

Poi viene la resa dei conti, dover scegliere la via di salita: la facciamo finita con Another Day o ci ingaggiamo su Neverland? Ancora una volta ci guardiamo con due punti di domanda al posto degli occhi: “mah, non so... per me è uguale... forse però è meglio... anche l’altra via non è niente male... si, ma, forse, certo che...”. Idee chiare e decise, insomma! È però evidente che non abbiamo gli attributi per puntare a Neverland e alla fine, direi anche per un certo amor proprio, ci buttiamo sull’altra via; la scusa è buona: dover dare prima un occhio alla parete e alle sue placche e poi entrare in confidenza col granito visto che quest’anno, almeno il sottoscritto, ha fatto ben poco. La verità è che mi cago in mano all’idea di arenarmi e non riuscire a passare su una linea dove manca pure una sosta: dovremmo abbandonare friend e materiale, non sono mica un mecenate per caiani!

Così parte Cece mentre a me spetteranno i tiri pari. All’inizio tutto fila liscio, riesco anche a passare in libera sulla prima e più difficile lunghezza anche se qualche passo sul bagnato ci lascia temere per un possibile effetta acqua planing. Spingiamo sulle suole, schiacciamo l’acqua contro il granito e la scarpetta resta al suo posto. Poi però al terzo tiro Cece deve combattere con una cascata con trote e salmoni; fortuna vuole che la roccia sia ben lavorata ma, anche solo a salire da secondo, non posso che complimentarmi con l’amico. Alla lunghezza seguente iniziamo ad imparare un’altra lezione: meglio mettere da parte l’istinto caiano e seguire il moderno. Un maledetto, vecchio e marcio cordone mi attira verso di se. Lo raggiungo e non mi pongo minimamente il problema del perchè ci sia attaccata una maglia rapida. Oltre però non vedo nulla se non una specie di cornicione. Lo raggiungo convinto di trovare uno spit e invece mi trovo nella merda fino al collo: sono disperso in un mare di granito e non vedo nessun salvagente all’orizzonte. Da sotto, Cece prova a guidarmi anche se del Gaddi c’è poco da fidarsi: la via dovrebbe andare a sinistra. Per una volta però forse ci ha azzeccato o, per lo meno, quella sembra l’unica direzione che possa permettermi di tirarmi fuori dai casini. Così ci provo: o mi salvo o ben presto mi sentiranno urlare come una checca isterica! Invece pare che sia il mio giorno fortunato: trovo uno spit e poi l’originale protezione ad anello. Salvo! Evidentemente però non devo ben aver capito la lezione e all’ottava lunghezza scatta la trappola del caiano. Evidentemente è stata predisposta apposta per sterminare la razza; è un po’ come il flauto magico per i topi nell’omonimo racconto: oltre c’è solo il dirupo e io, ovviamente, mi ci vado a tuffare! Del resto la facile fessura dopo la placca è un invito troppo ghiotto e accattivante! Forse però mi dovrebbe sorgere il dubbio visto che, continuando a salire, non riesco a trovare alcuna protezione. Invece no! Salgo sicuro di essere sulla linea giusta, facile e proteggibile finchè diventa chiaro che la via sale da qualche altra parte. Ora il problema diventa trovare un punto per sostare; non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello che invece la questione sia un’altra: come faremo a rientrare sulla via? Evidentemente però devo aver lasciato l’organo in macchina così da restare più leggero quindi inizio ad infilare friend in una fessura sperando che questa non me li sputi contro. Alla fine confeziono una sosta all’apparenza non orripilante e do il via a Cece. L’amico sale guardingo, alla ricerca dello spit perduto che, fortunatamente, riesce a scovare sulla destra. L’ho detto: oggi la cieca dea bendata è rimasta abbagliata dal nostro fascino! Poco oltre, Cece trova infatti anche una sosta, così io posso disfare la mia e provare a raggiungerlo. L’impresa non si rivela poi così ardua (sono proprio il preferito della dea!): torno sulla linea giusta e riprendo a salire fino alla sosta successiva, poco sopra quella scovata da Cece. Da lì non sbagliamo più anche se il Gaddi (che strano!) cerca di sviarci lasciandoci credere che sul diedro finale ci siano due tiri. Così quando raggiungo lo spigolo abbiamo la via ai nostri piedi ed è solo la una del pomeriggio! Esultiamo e ci complimentiamo anche se ci restano da fare le doppie sullo spigolo: ma la dea bendata continua a baciarci e coccolarci tanto che ritorniamo alla base senza praticamente nessun intoppo anche se forse la verità è che a guidare la discesa ci pensa Cece-sosta-detector e non il sottoscritto!


Cavallo Goloso


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sabato 30 giugno ‘12


Alla prima stazione (il parcheggio del Laret), i fraclimbers (il sottoscritto, Cece e Colo) incontrano il GAP team (Gabriele e Enrico): loro rivolti alla nord ovest, noi alla nord est. Poi, ovviamente, alla prima stazione ognuno si carica la propria croce: uno zaino che, a seguito di uno spinto processo compressivo, è prossimo all’esplosione e che in definitiva peserà si e no mezzo quintale! Con questa zavorra, inizio la mia via crucis che Cece decide di affrontare a mille all’ora: per il primo tratto, fino alla stazione del ponte sul torrente color caffè-latte, la velocità potrebbe essere anche accettabile ma, quando il sentiero inizia ad avere uno sviluppo verticale superiore rispetto all’orizzontale, il cuore inizia a martellare come una gran cassa ad un concerto rock. All’ennesima stazione mi urtico la gamba destra. Sono già un bagno di sudore, gocciolo come se piovesse e sono da poco passate le dieci di sera: l’umidità si taglia con il coltello tanto che non mi stupirei di vedere un salmone vagare a mezz’aria tra una pianta e l’altra!

Il locomotore davanti non accenna a rallentare ma, d’altro canto, i vagoni sembrano reggere bene l’andatura mentre i consumi di liquidi si alzano a livelli vertiginosi. Dopo essermi illuso che il rifugio fosse oramai ad un tiro di schioppo, alle prime scale inizio ad avere le allucinazioni. Barcollo ma non mollo e proseguo nella mia tortura serale.

All’ultima stazione, passiamo direttamente allo stadio successivo, la resurrezione: il rifugio si manifesta come un’apparizione divina mentre finalmente posso scaricare le spalle dall’elefantiaco bagaglio. Nella trasfigurazione devo aver imparato l’Esperanto: mischiando un po’ di tedesco a livello di un bambino di 2 anni, qualche parola di inglese e un pizzico di italiano, riesco a far capire che in 4 dormiranno dentro. Io trovo un simpatico angolino e piazzo il materassino sotto le stelle e un viavai di nuvole che corre verso il Badile.

Passano pochi minuti e cambio giaciglio: la panca è decisamente più comoda e piatta del selciato anche se non dovrò assolutamente muovermi onde evitare di spiattellarmi a terra! E solo a quel punto ricordo che all’Albigna la scorsa settimana è stato avvistato un orso: spero vivamente che l’animale non abbia deciso di girovagare superando la cresta perchè non mi piacerebbe svegliarmi col muso del plantigrado davanti alla mia faccia! Rendendomi conto che sono infilato in un bozzolo-trappola, cerco di assopirmi mentre immagino il mammifero azzannarmi la spalla e trascinarmi nel bosco. Sarà meglio fingermi morto o cercare di avere la picca a portata di mano? Con questi tranquilli pensieri, chiudo le saracinesche e mi addormento.

L’acqua della fontana smette di scendere. Un rumore ovattato: oh merda! Cosa diavolo sta succedendo? Poi una luce: è solo Enrico che è uscito a bere un sorso! Dopo essermela fatta sotto, torno a ronfare all’orribile caldo del sacco a pelo.

“E’ ora di alzarsi; sono le quattro e trentacinque!”. La sveglia mi chiama e io sobbalzo in mutande fuori dal bozzolo. L’orso non si è visto (e la cosa non mi dispiace affatto), in compenso fa già un caldo insopportabile e l’umidità è ancora a livelli improponibili.

Saliamo il sentiero verso la parete fino ai primi nevai residui. Picca e ramponi non servono assolutamente a nulla: la neve è già sufficientemente soffice da permetterci di salire senza utilizzare i ferri. Sono circa le 6 e il concerto è già iniziato: dal Cengalo rotolano verso valle pietre e massi roboando nella vallata. Andare alla parete sarebbe una roulette russa con più proiettili di quelli posizionabili nel tamburo!

La nord est è avvolta dalle nuvole. Ci prepariamo e attendiamo che la nebbia si diradi. La pausa non si rivela lunga: davanti ai nostri occhi c’è la cengia per raggiungere il diedro Rebuffat della Cassin e poco prima l’attacco di Another Day in Paradise, il nostro obiettivo. Tre vecchine ci guardano dagli accumuli di neve pensile sulla parete: la prima pare allibita e smette immediatamente di filare; la seconda, quanto meno disorientata, lascia cadere il filo dalle mani facendolo accumulare disordinatamente ai suoi piedi; l’ultima sembra invece essersi appena destata da un lungo sonno e immediatamente inizia ad affilare un paio di forbici mentre sul suo volto si disegna un ghigno inquietante. Ai primi raggi di sole, un pezzo di neve si stacca da uno degli accumuli e precipita verso valle.

Poco più in alto, una quarta nonnina con un saio scuro come la pece che non riesce a nascondere il corpo ossuto della donna ci fa cenno con una mano di avvicinarci alla parete mentre nell’altra regge un’enorme e affilata falce. Il traverso della morte certa e sicura: se dovessimo passare quelle chiazze nevose e quelle dovessero decidere di iniziare a correre verso le fauci dei seracchi alla base della parete, ci troverebbero tra qualche centinaia di anni. Siccome siamo giovani, aitanti e ci piace al lunedì entrare con le nostre gambe in ufficio, mandiamo a quel paese la casa di riposo e abbandoniamo il nostro obiettivo. La prima Parca riprende a tessere il filo, la seconda torna a sistemarlo nella cesta mentre l’ultima ripone le forbici e con uno sbuffo si rimette a ronfare. La Signora Morte getta stizzita la falce nel ghiacciaio, gira i tacchi e se ne va.

I tacchi li giriamo anche noi: la mia proposta di salire lo spigolo cade nel vuoto e così riprendiamo la strada verso il rifugio portando a casa un altro bel nulla di fatto se non un’allucinante sgambata alla stupenda nord est del Badile.


Cavallo Goloso


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