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PIZZO CERVANDONE O SCHERBADUNG – VALLE DEVERO

sabato 05 aprile ’25<


Bastano poche parole per convincermi e il Walter lo sapeva: mi gira la relazione sicuro che avrei detto sì davanti all’incipit “grandioso itinerario” e poi “richiede un minimo di esperienza alpinistica” che sembra messa lì giusto per colpire il mio ego. E poi arriva il momento di tirare le somme sull’orario di ritrovo e anche lì il Walter sa benissimo come intortare il pollo - 5 a Lomazzo? - uno sano avrebbe risposto - Ma neanche per sto cazzo! - tra l’altro con una certa vena poetica. Invece io mi faccio due conti punto la sveglia alle 4 e un’ora dopo sono all’appuntamento. Così sfondo il muro dell’ovest e, soprattutto, della val d’Ossola dove, come dicono la Lella e l’Andre - C’è tutto - Francamente non sono convinto che sia proprio così e ancora non ho ben capito quale sia tutto questo fascino ma, in effetti, quando arriviamo al parcheggio dell’alpe Devero devo riconoscere che il posto ha il suo perché. L’altra cosa che resta un po’ un mistero è il motivo per cui partiamo a razzo: io me lo dico che forse sarebbe il caso di abbassare un po’ il ritmo, che poi rischio di collassare ma niente, le gambe spingono e noi ci troviamo in alto ben prima di quanto pensassi. A quel punto ci si schiaffa davanti il Cervandone e, soprattutto, il canalino Ferrari da cui dovremo salire e che da qua sembra un muro verticale ma quello che più dovrebbe preoccuparmi è il percorso di discesa dal colle Marani o, meglio, quanto questo disti dalla cima. Ma sono ancora in trance sotto gli effetti del “grandioso itinerario” e non mi rendo conto che molto probabilmente schiatterei prima di completare l’anello. Poi da dietro arriva un ansimare sempre più insistente, lo sento avvicinarsi insieme allo scivolare di due coppie di sci: i due ben presto mi lisciano le orecchie e passano davanti. Provo a cercare giustificazioni per non far troppo risentire il mio ego ma poi questi girano verso un pendio a destra e noi ci ritroviamo soli ad affrontare quel “mostro” là davanti. Il primo cambio d’assetto avviene circa 200 metri sotto la cima poi, siccome pare trovi divertente cambiarlo in continuazione, mi ripeterò un altro paio di volte prima di trovarmi sul punto più alto del Cervandone ma questo ancora non lo so. Intanto inizio a sprofondare con i ramponi che formano delle zeppe che sono un misto tra certi zatteroni di dubbia utilità e un bel paio di scarpe in cemento utili per sprofondare negli abissi. Mi viene quasi voglia di fermarmi a toglierli (e sarebbe la prima variante al cambio d’assetto) ma poi lascio perdere e forse è meglio che sia così. Quando infatti il conoide si stringe e mi infilo nel budello confidando che la montagna non apra completamente lo sfintere ma si limiti a mandarci giù solo qualche ventata di neve gelata, il fondo si fa più duro e le zeppe meno fastidiose. Ed è lì che inizia a ronzarmi in testa l’idea - Walter, potremmo scendere da qui… - ma non specifico come. Mentre saliamo l’idea continua a fare il pendolo: potrei o non potrei? Arrivo così all’uscita del canale quando la vetta mi da una mazzata psicologica troneggiando sopra le nostre teste. E qui inizia il balletto dell’assetto perchè mi sembra meglio mettere gli sci piuttosto che proseguire a piedi ma la scelta si rivela ben presto infelice e alla fine i legni tornano a fare la capanna sopra lo zaino. Arrivo quindi alla breve ed esposta cresta finale dove mi cago in mano sentendomi stabile come un bambino che ha da poco abbandonato la postura a quattro zampe. In discesa la sensazione è anche peggio e forse proprio considerando quella copiosa sgommata nelle mutande mi decido: finita la cresta inforco gli sci e parto. Tutto sommato il pendio fino all’imbocco del canale si dimostra ben più docile di quanto mi fosse sembrato in salita: potrei quasi scomodare il concetto di “dominio” su una neve che nel complesso è in ottime condizioni. Poi però arriva il canale e il pendolo si ferma in modalità “discesa con gli sci” che non necessariamente significa sciare il pendio perchè alla fine l’istinto di sopravvivenza avrà la meglio. Il momento peggiore è l’ingresso: il canale è stretto e ripido ma, subito sotto, si forma una specie di conca che mi salverebbe da una rovinosa caduta. Per cui decido che si può tentare e mi butto. Di fatto è una derapata continua, un po’ perchè sono scarso e un po’ perchè di spazio non ce n’è. Dove l’imbuto si apre un po’, riesco a mettere insieme qualche curva e la cosa mi ringalluzzisce, poi torno a derapare in attesa finalmente di lasciare correre i legni sul pendio sottostante.


Cavallo Goloso


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