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CAPANNA JENATSCH – ENGADINA

domenica 11 settembre ‘16


Era nell’aria e alla fine ci riproviamo un’altra volta cercando di evitare le prime nevicate ma non immaginando certo che tutto il progetto sarebbe poi rimasto sospeso ad un filo per via di un’inattesa gara di pattini in linea! Già, perchè quando arriviamo in dogana, un cartello ci avvisa che dal Maloia la strada sarà chiusa fino a metà mattina: sembra quasi che una forza oscura si opponga a farci raggiungere la Jenatsch! Comunque, non prestiamo grande attenzione all’avviso e continuiamo la nostra salita verso il passo dove veniamo fatti deviare su una stradina laterale che ci permette di superare la massa di pattinatori intenti a riscaldarsi prima della partenza. Pare quindi che l’intoppo sia oramai alle nostre spalle e così iniziamo a sparare ipotesi sulla possibilità di allungare il giro visto che “una trentina di chilometri sono praticamente un’inezia”. L’ipotesi è quindi quella di raggiungere la capanna per poi risalire ad un passo e calare come un’orda barbarica su st. Moritz. Facile finchè si guarda il percorso sulla carta, un po’ meno quando ci si deve pedalare sopra! Stiamo quindi costrurendo il nostro castello di fantasie quando, con risoluta e indiscutibile direi quasi autistica fermezza ci viene imposto di fermarci causa passaggio della gara di pattini! Siamo esterrefatti: scusate, siamo davanti ai corridori che fastidio possiamo dare? Nulla da fare: gli ordini sono ordini e la poliziotta non può certo infrangerli! Così ci becchiamo pure la gara di roller e contemporaneamente iniziamo a temere per l’intero giro: insomma, da sboroni fantasticanti, nel giro di pochi minuti, passiamo a ciclisti semi depressi! Passata la corsa, finalmente possiamo riavviarci a ritmo semi processionario all’inseguimento della carovana col risultato che impieghiamo mezza eternità per raggiungere st Moritz e poi il punto in cui iniziamo la nostra pedalata.

Il primo tratto di salita che ci permette di addentrarci sempre più nelle viscere della vallata, scorre decisamente più rapido di quanto ricordassi: d’altra parte, la strada bella linda e priva di neve passa senza intoppi sotto le nostre ruote tanto che arriviamo all’inizio dello sterrato ben prima di quanto ricordassi. Poi arrivano gli strappi: anche questi passano rapidi mentre la ruggine dei pistoni ciclistici rimane ben incollata ai muscoli col risultato che fatico non poco a passare indenne gli ostacoli. Quindi la valle spiana e noi continuiamo ad inseguirne l’irraggiungibile circo conclusivo come se ci trovassimo ai confini dell’universo in espansione: sebbene la navicella procede incessantemente, l’orizzonte continua altrettanto implacabile a spaziare verso l’infinito! Raggiungiamo l’ultimo alpeggio, praticamene le nostre colonne d’Ercole o, se vogliamo, il “finis terrae” del precedente tentativo e, dopo una rapida consultazione, riprendiamo a pedalare: in fondo, se il sentiero continua semi pianeggiante, perchè abbandonare la due ruote e continuare a piedi? In effetti la decisione si rivela vincente pur costringendoci ripetutamente a spingere il mezzo a mano mentre lo sconfortante senso di eternità prosegue la sua opera opprimente: la valle continua infatti il suo moto espansivo mentre della capanna pare non esserci alcun segnale. Ho la stessa sensazione della Boval: non è che il rifugio sia stato fagocitato dalla montagna oppure, preso dalla solitudine, abbia fatto le valige e si sia spostato sul lungo mare di Rimini?

In realtà siamo più vicini di quanto pensassimo e, superata un’ultima rampa, finalmente scorgiamo l’inconfondibile e vicina sagoma. Ci fermiamo però pochi minuti perchè il cielo ha già iniziato a mettere su la coperta grigia: ci manca solo un’altra piovuta per completare degnamente il week end inglese! Così, abbassata la sella e stretti i freni, sono pronto a tuffarmi nella tormentata danza del discesista. Il sentiero faticosamente conquistato da un po’ del filo da torcere ma proprio qui sta il bello: discese intense dove azzeccare sassi e buche, schivare i gradini più alti e vincere i tratti ripidi. È un po’ come lo scialpinismo in un bosco ripido e fitto: i legni non prendono mai grande velocità ma la goduria nel saltare di qua e di là è qualcosa di ben più appagante che il noioso scivolare veloci senza alcun ostacolo! Poi arriva la mulattiera dove cedo alla velocità regalandomi ulteriori brividi quando entro a tutta velocità in alcuni tratti un po’ troppo sconnessi come un missile vicino a perdere il controllo. Con grande abilità, riesco ad evitare di farmi disarcionare e, guarda caso, a raggiungere un riparo proprio all’inizio del diluvio per poi chiudere la discesa quasi all’asciutto mentre i sogni della calata su st Moritz restano attaccati alle rotelle dei pattini.


Cavallo Goloso


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domenica 26 ottobre ‘14


La stuzzicante proposta parte da lontano e, nonostante la pianificazione, nulla sembra metterci i bastoni tra le ruote finchè la perturbazione orientale di inizio settimana porta con sé un’inattesa nevicata. Questa diventa così il principale ostacolo per la bicicletta, mezzo scelto per coprire la maggior parte dei 16km che ci separano dalla capanna. Nonostante tutto, continuo però a tenere alto l’ottimismo e mi preparo alla salita senza aver studiato nulla: né il percorso né, tanto meno, la situazione nivologica lasciando tutto nelle mani di mio papà. Così, quando iniziamo ad addentrarci in Bregaglia, non posso che restare sorpreso per l’abbondante imbiancatura che mi sovrasta. Il morale resta però alto e, noncuranti, proseguiamo verso Bever. Ma la situazione muta rapidamente appena iniziamo a pedale sul sentierino iniziale: la coltre nevosa fa sembrare la coda della bici come il fondoschiena sculettante della modella. La ruota va di qua e di là e poi si incuzza costringendoci a scendere continuamente di sella. Se la situazione dei primi metri rappresenta la costante del percorso, possiamo anche dire addio ai sogni di gloria! Invece, in nostro aiuto, arriva la strada pulita che porta ad una stazione solitaria del treno: torniamo così a pedalare senza problemi imboccando, poco più avanti, la mulattiera ciclo pedonale. Tutto continua a filare sostanzialmente liscio fino a una breve ma ripida rampa che schizza verso l’alto: spingo sui pedali, scarico tutta la potenza sui copertoni mentre il cuore inizia a pulsare con maggiore intensità. Rapidamente la pulsazione diventa un rullo incessante mentre annaspo alla ricerca di aria. In fondo è solo un breve strappo, nulla in confronto al massacrante muro di Palanzo, eppure mi sembra di essere difronte ad una specie di Everest! Poi finalmente la strada degrada, si abbatte e torna piana prima di una discesa. Intanto la stazione del treno arriva rapidamente e, con essa, tornano anche i dolori: la coltre bianca si fa infatti sempre più frequente e, di conseguenza, anche i disarcionamenti dalla sella. Questi, oltre ad essere una mazzata per le gambe e il ritmo, lo sono soprattutto per il morale che vede la meta programmata sempre più come un fioco e lontano lumicino. Continuiamo comunque imperterriti la nostra ascesa finchè diventa palesemente inutile proseguire con i mezzi meccanici. Da qui, si prosegue a piedi! Sfruttiamo la traccia di qualche altro temerario e raggiungiamo il vicino alpeggio dove, da programma, avremmo dovuto lasciare le bici. Siccome però abbiamo ancora tempo, la giornata è calda e soleggiata e il silenzio della valle è un invito all’avventura, iniziamo a disegnare la nostra traccia sul manto intonso. In realtà scopriamo quindi che la mulattiera prosegue, supera un restringimento della valle e raggiunge un secondo alpeggio dove alziamo bandiera bianca. L’orologio non gioca infatti a nostro favore e l’incognita sul rientro in bici ci consiglia di assaporare la solitudine e girare i tacchi. La puntata esplorativa comunque non lascia dietro di se un vuoto deserto ma piuttosto l’idea di tornare con condizioni migliori; il nostro quindi è solo un arrivederci all’ultima baita che precede il risveglio del rider: il percorso non offre pendenze al cardiopalma ma l’assenza è sopperita dal manto nevoso dove la bici scodinzola, rallenta ma passa praticamente sempre vincitrice. La tecnica è semplice: individuo il freddo e bianco ostacolo, entro a mille, controllo la sbandata, pedalo per non fermarmi, e poi esco sulla terra battuta. In tutto questo, gli unici a pagare effettivamente il conto sono i freni: i pattini bagnati infatti fanno scarsa presa sui cerchioni ma alla fine riesco a rientrare all’auto integro, coperto di fango e con la bici carica di aghi d’abete!


Cavallo Goloso


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