VALLE DEL SALTO – VALLE MAGGIA
domenica 29 agosto ‘21
Il problema di Palermo è il traffico”; il problema della Svizzera sono i limiti di velocità. Guidare in terra elvetica è estenuante e stressante come per una gazzella attraversare la savana che pullula di leoni; e, più o meno, la fine che puoi fare è quasi la stessa. Devi prestare attenzione ai limiti che sono ondivaghi ma non costanti: una specie di selva oscura dove il cartello dal cerchio rosso può fare capolino all’improvviso e, subito dopo, ti trovi il fotografo con la sedia elettrica già accesa. L’unica soluzione è dimenticare che esista il pedale dell'acceleratore e confidare in tutti i sensi per non cadere nella trappola. Nonostante questo, ho proprio voglia di uscire dal territorio nazionale: oramai è più di un anno che non metto il naso oltre Chiasso; così sfoglio la guida (ovviamente all’ultimo) provando a cercare una gita che risponda a tutti i requisiti: posto vicino (perchè la partenza è agli antipodi del dettato caiano) ma non troppo (se no finisce che si va sempre nei soliti posti), dislivello contenuto ma percorso piacevole e, preferibilmente, ad anello. Il risultato è che ora mi trovo l’armadio pieno di libri sulle passeggiate dell’arco alpino centrale. Così oggi puntiamo alla val Maggia: mi prendo il Valium e mi metto al volante, un occhio puntato al tachimetro, l’altro al lato destro dell’autostrada in costante ricerca del maledetto cartello. Arrivare all’imbocco della valle mi ricorda i tempi andati, quando, in pieno inverno, rischiavi comunque di friggere sulle placconate mitragliate di spit: primi ad arrivare ed ultimi ad andarsene con in tasca una misera vietta di una manciata di tiri. Superiamo le zone d’arrampicata e, poco oltre, siamo in caccia del parcheggio ma, soprattutto, dell’imbocco del sentiero. Idealmente dovrebbe essere facile ma districarsi nel dedalo di stradine e casupole di Maggia ci catapulta in una specie di piccolo labirinto da cui usciamo sfoderando il fiuto caiano ma, soprattutto, una pianta in scala 1:1 del paese. Iniziamo con una scalinata, una serie infinita di gradini che sembra la scala santa dell’ubriacone e che passa tra i filari d’uva in procinto di ribaltarsi come un’orda di Unni sulle case sottostanti. Considerando che sono quasi astemio e alla Jo poco ci manca, arranchiamo senza percepire l’elevazione spirituale di chi sta attaccato alla bottiglia e, addirittura, non ne condividiamo gli effetti post-sbornia con cuore e polmoni che stranamente non vengono vomitati sul selciato. Che il dolce far poco croato abbia sortito degli effetti inaspettati? Ci inoltriamo così nel solco del torrente senza in realtà scorgere granchè di quello che ci circonda ma incrociando una serie copiosa di escursionisti di ritorno dalla gita. Pare che siamo gli unici ad arrancare in salita a quest’ora. Poi, finalmente, il baratro alla nostra sinistra si apre un pochino mostrandoci delle vasche d’acqua verde che sembrano le sirene di Ulisse: ti ci tuffi biotto col pitone e ne esci con un vago accenno di gamberetto stantio. Che poi a raggiungerle bisognerebbe avere l’attrezzatura o il fegato di tuffarsi nell’ignoto: siccome non ho nè una nè (soprattutto) l’altro la sirena può cantare quanto vuole ma io me ne resto all’asciutto. Tutto si fa più difficile poco oltre, dove il sentiero passa sul versante opposto e inizia a tornare indietro. Qui il torrente forma delle pozze il cui accesso è complesso come quello al mare di Rimini e, il risultato, più o meno, è lo stesso: orde di gitanti (in realtà ci saranno si e no 10 trichechi spiaggiati sui sassi che contornano il fiume) che si crogiolano al sole ma comunque, niente da fare, è ora di pranzo (o forse sarebbe meglio parlare di pre-merenda) e poi abbiamo dimenticato il costume. Così alla fine il bagno salta e a noi non resta che riprendere la strada del rientro sull’altro versante della valle che, qua e là, finalmente si concede a regalarci qualche squarcio della testata apparentemente selvaggia.
Cavallo Goloso
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