LAGO D'ARNO – VAL CAMONICA
domenica 31 maggio, martedì 02 giugno ‘20
L’auto passa a pochi metri dal bagagliaio, arriva alla vicina partenza della teleferica e si gira puntando i suoi fanali verso il Caddy. Fosse per me, continuerei a ronfare beatamente come se nulla fosse ma la Jo no: ha drizzato le antenne e pare una gazzella pronta a scattare. Dopo il pazzo strombazzatore della val Malenco, ci mancava un altro svitato che interrompesse il sonno alle 3 di notte. Qualcuno apre le portiere ma non si capisce cos’altro faccia: andare in camporella fin quassù non mi pare un’idea geniale nè partire per una caianata col tempo londinese. Intanto i fari ci illuminano come le luci di una discoteca filtrando la nebbiolina che si fonde con la pioggerella che batte incessantemente sulla carrozzeria. Passa una manciata di minuti in cui una valanga di pensieri si srotola nella mente: chi cazzo è? Mr Hyde? Poi le portiere si chiudono, la macchina riparte, ci passa di nuovo davanti e prende la strada verso valle. Fuori regna il silenzio, dentro il battito incessante dei nostri cuori.
Alle 5 è la volta della Panda. Si ferma di fianco al Caddy quando c’è un piazzale deserto: certa gente deve proprio rompere gli zebedei o far di tutto per farti venire un colpetto. Questo però c’ha lo zaino da trekking, lo vediamo chiaramente attraverso i finestrini. L’uomo scende, inforca lo zaino e accende il faro da stadio che si porta in testa e ce lo punta contro. Osserva dentro la nostra macchina, commenta qualcosa e poi passa ai finestrini davanti. Questa volta è lui ad avere un colpetto: forse non si immaginava ci fosse qualcuno; ma allora cosa guardavi così incuriosito? Gira il faro di San Siro e si allontana sotto la pioggia. Solo che lui è la punta dell’iceberg, l’avanguardia della massa di escursionisti che da lì ad un paio di ore inizierà a fare la spola nonostante Il tempo schifo-merda con un’inutile pioggerellina che bagna per sfinimento. Quando poi sono da un pezzo passate le 10, ci decidiamo a lasciare le comodità del nostro Caddy-Lake con l’obiettivo di raggiungere il rifugio Città di Lissone lungo la sequela di tornanti e gradini che pare non abbia mai fine. Impieghiamo il tempo necessario perchè il cuore della Jo non salti fuori dalla bocca e soprattutto perchè io riesca ad azzeccare le risposte all’interrogazione del corso di botanica. Devo dire che qualche piccolo miglioramento lo noto: dal 4, sono passato ad un solido 5 e mezzo, vedo la luce della sufficienza ad un tiro di schioppo!
Superata la capanna e parzialmente svuotata la scatola delle provviste, ci allunghiamo lungo il pianoro della valle Adamè, un taglio ad U che si infila nella montagna per non so quanti chilometri. Oramai in giro non c’è quasi più nessuno e i pochi escursionisti che troviamo sono tutti diretti nella direzione opposta alla nostra finchè ci troviamo completamente da soli ad eccezione dei campanacci fantasma che sentiamo rintoccare sul pendio: Tarantino evidentemente sta riprendendo a girare il suo film. Scrutiamo l’orizzonte ma nulla, nessuna traccia di animale, solo quell’inquietante tintinnio portato dal vento che pare provenire da oltre le nubi. Saranno i fantasmi di qualche pattuglia di alpini? Un brivido mi passa lungo la schiena finchè, quando oramai abbiamo girato i tacchi da diversi minuti, il sipario finalmente si alza lasciandoci scorgere alcuni bianchi batuffoli di lana che trotterellano su e giù dal pendio.
Al parcheggio non siamo i soli intenzionati a passare la notte: un’allegra famigliola dal difficile rapporto col sonno ha piazzato la sua tenda poco distante dal Caddy; ci si infilano dentro quando io e la Jo non abbiamo ancora terminato la cena per poi balzare fuori che non sono nemmeno le 6. Alle 8 sono ancora in giro a far ballare le bambole quindi impacchettano la loro roba dal valore incalcolabile e si avviano su per il sentiero. Noi invece ce ne stiamo ancora un po’ accoccolati al calduccio del nostro piumone. E così finisce che assistiamo all’arrivo dell’ennesima mandria di escursionisti nell’attesa di capire dove andare a sgranchire le gambe. Non conoscendo praticamente nulla del posto, in pieno rispetto delle massime regole di sicurezza dell’andare in montagna, mi affido allora alle informazioni date da un escursionista che ci consiglia la salita al lago d’Arno. Non ci rimane allora che scorrere le principali voci del Manuale del Perfetto Esploratore prima di incamminarci lungo il sentiero; “conoscere il percorso”: a mala pena sappiamo in che valle ci troviamo. “Portare una cartina precisa e un altimetro per aiutarsi a identificare la propria posizione”: la mappa (una foto catturata dal tabellone al parco giochi del paese) è simile a quella della caccia al tesoro dei cereali mentre il mio orologio altimetro pare sia andato fuori di matto. “Avere un cellulare carico”: quello della Jo è morto già dal giorno prima mentre il mio sta agonizzando da alcune ore. “Avvisare qualcuno sulla meta e il percorso che si intende fare”: beh, l’escursionista cui abbiamo chiesto informazioni è qualcuno. “Essere sufficientemente allenati”: le scale di casa riusciamo a farle senza bivacchi intermedi. Direi che ci siamo: possiamo intraprendere la nostra scalata e, in effetti, l’ascesa si rivela abbastanza simile, con una mulattiera che si inerpica su per il bosco senza dare tregua alle gambe che iniziano a chiedere pietà dopo il giro del giorno precedente. Arranchiamo lungo la salita domandandoci più e più volte dove diavolo sia il bivio che dovremo prendere tanto che, ad un certo punto, inizio a temere si tratti di un’irraggiungibile chimera. Poi però la deviazione arriva, il sentiero perde un po’ di quota e, con un’inaspettata breve salita, ci porta in corrispondenza del muraglione della diga. Un lago artificiale! Restiamo entrambi con le mosche che entrano ed escono dalla bocca e la lingua asciutta per la sorpresa: mi aspettavo uno specchio d’acqua alpino mentre ci troviamo davanti ad un’opera artificiale dal color verde fluo. Torniamo al Caddy che è oramai ora di cena e andiamo a parcheggiare in una stradina in mezzo ad un prato dove passeremo la notte. Martedì la sveglia non suona eccessivamente tardi ma quando finalmente ci spostiamo, una coppia di contadini sta già attendendo da alcuni minuti che noi si levi le tende. Il vecchio barbuto, cui pare mancare l’accetta o l’archibugio da guerra napoleonica, ci squadra dal folto delle sopracciglia mentre dietro la muta lottatrice di Sumo se ne sta con le braccia conserte. Alla fine ci va anche bene: ci prendiamo un bonario rimprovero che, alla nostra risposta di aver passato lì la notte, si chiude con un “Bon/ben” che non comprendiamo più di tanto e un sorriso da parte del contadino mentre dietro la donna resta completamente impassibile.
Oggi cambiamo valle. Il nostro obiettivo è la val Paghera dove, agli albori del Mondo, avevo sguainato picche e ramponi sulle cascate locali. Ora la strada mi pare maledettamente lunga ma, soprattutto infinitamente stretta: mi domando come diavolo abbiamo fatto a passarci con la neve che ricopriva il panorama ma, soprattutto, mi pare decisamente strano non aver il minimo ricordo di un percorso così tortuoso. Con le nostre sempre precise informazioni raccolte dalla cartina affissa al parco giochi, lasciamo l’auto poco prima del termine della strada quando la tensione per il pertugio in cui siamo andati ad infilarci ha oramai raggiunto l’indicatore rosso stabile. Così ci scaldiamo per alcuni minuti fino a raggiungere il ridente agglomerato di case che si sparpaglia dove la valle muore contro i salti delle pareti. Ora il cervello inizia a girare: là in fondo devono esserci le fantomatiche cascate mentre la strada per arrivare fin qui resta un nebuloso mistero. Noi ci dirigiamo nella direzione opposta, lungo una mulattiera che, dopo una breve e leggera salita, dovrebbe portarci ad una valle sospesa. La strada inizia a inerpicarsi su per il muraglione: sarà solo un breve strappo. La strada continua imperterrita a salire: sicuramente è questione di pochi minuti e poi spianerà. La strada si impenna come un cavallo imbizzarrito: me ne sto zitto che forse è meglio e provo a trovare qualche scusa; d’altra parte, la precisa carta a nostra disposizione non ha la finezza per cogliere l’andamento tendente al verticale di un simile percorso: alla fine sembra che la Jo si convica e, ingurgitando il muscolo cardiaco che le vuole balzare fuori dalla gola e prendere la strada del ritorno, sopporta l’ultimo strappo prima della valle sospesa. L’incipit della nostra meta non è per nulla male: un vallone che si insinua tra i picchi e al cui centro sorge una piccola baita. Ma poi finisce tutto lì perchè dal cielo iniziano a buttar giù qualcosa: i primi goccioloni cominciano a martellare il sasso su cui ci troviamo. Ci guardiamo allibiti: tiriamo su l’armamentario e ci buttiamo a capofitto giù per la discesa mentre in alto beffardi chiudono i rubinetti.
A questo punto, scampato il temporale, non resta che svelare il mistero di questa valle sconosciuta: scartabelliamo su internet e, alla fine, scopriamo che in zona di val Paghera ce ne sono due!
Cavallo Goloso
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