|racconto|   |relazione|   |foto|


MONTE LAGO – VALLE DEL BITTO DI ALBAREDO

lunedì 06 dicembre ’21


Non scelgo il monte Lago perché è lì (giusto per parafrasare Mallory) ma perché l’avevo fatto con il corso di scialpinismo (meglio non ricordare quanti anni fa perché altrimenti mi renderei conto di essere vecchio) e, non so perché, il cervello me l’ha riproposto un po’ come quando si apre l’armadio e salta fuori qualche vecchia maglietta dimenticata. Così do un occhio al bollettino e mi metto in macchina, rigorosamente in compagnia del solo me stesso. A volte un po’ di solitudine non guasta: ci si può fermare quando meglio si vuole, si va al ritmo che si preferisce e soprattutto ci si può lamentare in santa pace senza nessuno che ti dia contro. Poi però alla lunga iniziano a crescere peli da tutte le parti, le unghie diventano artigli e si inizia solo a dire: “Ehi Bubu, hai visto quel cestino?”.

Lascio la macchina con gli sci nello zaino e, visto il dislivello, parto subito con la testa bassa. Ovviamente pagherò la scelta. Il sentiero è piuttosto avaro di polvere bianca e così finisce che, con un breve intermezzo, gli sci rimangono sull’attenti sulla mia schiena finchè, ritornato sulla mulattiera sufficientemente innevata, posso finalmente mettermi a scivolare sul manto bianco. Supero l’alpe Piazza e poi seguendo la traccia pedonata arrivo alla spalla alla base del pendio finale. Mi sembra che la cima sia ad un tiro di schioppo e che il famigerato ultimo tratto non sia poi così ripido eppure una rapida occhiata all’altimetro mi fa trasalire. Mi mancano circa 300 metri di sfacchinata prima di raggiungere la croce e le bandiere di vetta! Impossibile: ci dev’essere un qualche errore nello strumento. Già mi sembra di aver sfacchinato a sufficienza, ben oltre i 700 metri che indicherebbe l’altimetro e poi la cima non mi sembra per nulla così distante! Allora parto. C’è una traccia pedonata ma per gli sci nulla così inizio a risalire il pendio con continui cambi di direzione stando il più vicino possibile al filo della cresta. Quei 300 metri mi fanno sputare sangue ben più del normale: possibile che il mio stato di forma sia crollato come le azioni dopo la crisi del 2008? Cerco di convincermi che non possa essere così, forse è solo dovuto al fatto che negli ultimi 4 giorni mi sono sempre tenuto fisicamente occupato e sicuramente l’essere partito a razzo dalla macchina non ha aiutato. Negli ultimi metri gli sci tornano a dondolare sullo zaino: molto meglio seguire la traccia pedonata che sfondare nella scarsa neve che ricopre il pendio. E poi, alla fine, la salita termina e io mi ritrovo in vetta. Nulla di particolare: là in fondo c’è il solito Disgrazia e in lontananza vedo pure il lago di Como ma se penso alla discesa che mi aspetta mi domando cosa ci sia di così interessante in questa gita. Eppure, dal corso di scialpinismo ricordavo una mezza impresa epica, non di quelle da valanga di bollini ma certamente una cima ben più intrigante.

Inizio a scendere prestando più attenzione a non pestare i ciuffi d’erba piuttosto che a staccare qualche rimasuglio di neve. Le prime curve, come al solito, sono un po’ legnose ma poi la neve migliora e qualche divertente scodinzolamento riesco pure a farlo. Ci sarebbero i pendi in ombra ma sono in giro da solo e non mi va di finire sepolto per poi essere ritrovato in primavera così mi accontento di una breve variante prima di tornare sulla traccia che mi porta all’alpe Piazza e da qui, lungo la mulattiera, scivolare noiosamente fino alla macchina.


Cavallo Goloso


Per lasciare un commento, clicca QUI