PIZZO MERIGGIO – VALLE DEL LIVRIO
domenica 26 febbraio ‘23
Non sono particolarmente in vena di scialpinismo e, a dire il vero, questa è una sensazione che mi accompagna già da diversi weekend così, quando fermiamo le auto davanti ad un pascolo giallo, l’istinto sarebbe quello di fare dietrofront e andare a cercare dove mangiare un bel piatto di pizzoccheri. Eppure, parafrasando qualcuno, “è giorno di lavoro e questo ci tocca!”: sci in spalla (quello che i francesi chiamano “portage”) e ci avviamo alla caccia di quella cosa bianca e fredda che gli antichi chiamavano neve. A dire il vero non camminiamo molto prima di trovarne un quantitativo sufficiente a far scivolare i legni tra un sasso ed una zolla d’erba. Neve tritata, pressata dall’infinito passaggio di mandrie come la nostra con tanto di cerchi blu per segnalare ai corridori della scorsa settimana la presenza di ostacoli. Forse, se avessero segnalato la neve, si sarebbe fatto prima e intanto continuo a chiedermi perchè diavolo non siamo dirottati verso un piatto di polenta e cervo. Poi la strada sparisce, non si sa bene come, e noi finiamo, branco di pecoroni, a infrattarci nel classico bosco orobico che nel giro di due minuti si impenna come una rampa da motocross. Ne usciamo vivi, riprendiamo la stradina e poi ancora su mentre dall’alto qualche timido fiocco arriva a farci compagnia. Evvai che poi si scende nella polvere! La prossima volta potrei raccoglierne un po’ dai mobili di casa così da portare il mio contributo! Il Meriggio se ne sta lassù a osservare il mare di nuvole che sembra foriero di chissà che ma che alla fine si rivelerà poco più di un pallone gonfiato. Superiamo il crinale (per altro uno dei pochi tratti di cui mantengo memoria rispetto la precedente esperienza preistorica) quindi l’ultimo pendio e poi siamo in vetta. Attorno praticamente il nulla cosmico: la massa fanfarona fa la gradassa ma parla e parla senza arrivare a prendere in mano la situazione con una sonora nevicata. Ci buttiamo sulla discesa, una specie di tavola marmorea butterata utile per massaggiare le gambe, poi arriva la cresta e, alla fine, il bivio, la zona del dubbio. Aggiriamo il montarozzo che ci si para davanti verso destra perchè sembra che qualcuno sia passato da lì. In effetti qualche traccia la scoviamo: due curve tra gli alberi (le ultime decenti della giornata) e poi è chiaro che siamo troppo in basso. Il bosco diventa una selva, classico ambiente orobico e noi iniziamo quello che i francesi chiamano “ravanage”. Di solito è ciò che prediligo ma forse con un po’ più di neve; in effetti questo non è semplice “ravanage sauvage”: ben presto si trasforma in un “ravanage” della salvezza! Traversiamo verso sinistra e, ovviamente, gli sci affondano in un manto inconsistente. Poi guadagniamo un prato (ma va?), lo risaliamo e torniamo sulla traccia. Un’altra manciata di curve (se così le vogliamo chiamare) e poi si arriva al bivio. A sinistra la traccia di salita che prevede una decina di metri senza sci, a destra l’ignoto ma con tracce di discesa e neve apparentemente garantita. A volte non basta pestare il muso una volta, c’è a chi piace perseverare nel masochismo. Così noi prendiamo a destra. Torno a ripetere: oggi sarebbe stato meglio un piatto di polenta uncia. E infatti finisce che dopo il “ravanage” proviamo il “derapage” anche questo ben presto “sauvage” che poi, a quel punto, diventa di fatto un altro “ravanage”. La cosa dura a lungo, direi anche troppo, finisce con l’ennesimo tratto a piedi prima di tornare, finalmente, sulla stradina. In realtà è una salvezza fittizia, quasi una caduta dalla padella alla brace. Certo qui abbiamo perso l’incognita del dove finiremo ma, se questo è sciare, la prossima volta mi porto coltello e forchetta e mi vado ad infilare in un qualche grotto!
Cavallo Goloso
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