racconto del piz cristallina, val tavetsch (grigioni)


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PIZ CRISTALLINA – VAL TAVETSCH

sabato 03 marzo ‘18


A volte, ancora prima di partire a sfacchinare, il caiano si intrufola in qualche locale a fare l’aperitivo, giusto per stimolare i succhi della digestione in previsione del prossimo succulento banchetto. Questa volta, appena superata Campra, il leggero analcolico ha le sembianze della strada completamente imbiancata sulla quale le gomme del mezzo del Denny rotolano senza battere ciglio: pur guardandoci un po’ attoniti, proseguiamo imperterriti il nostro girovagare fino a superare il Lucumagno. Qui la botta alcolica è come un destro di Tyson, potente e feroce ma soprattutto inaspettato. Con gli occhi ricolmi del bagliore della neve che ci circonda, andiamo infatti ad infilarci nell’antro di Satana, una lunga galleria para-slavine buia come la cantina dei peggiori incubi. Praticamente è come sbattere il muso in un buco nero la cui massa ci sta risucchiando nelle viscere della terra.

Al parcheggio non c’è nessuno. La cosa forse dovrebbe puzzarmi un po’ visto che sono le 9 passate ma al momento il mio naso non percepisce alcun odore, così sbarco dal caldo del Caddy e mi faccio avvolgere dalla frescura dell’inverno. Individuata poi la vecchia traccia, iniziamo a risalire il crinale tra un intricato dedalo di abeti che non promettono nulla di buono per la discesa. Inoltre, nonostante l’aperitivo, i succhi gastrici non hanno ancora iniziato a lavorare e io mi sento catapultato da queste parti più per la regola del fine settimana che prevede la lotta alpestre piuttosto che per il piacere di una sciata. Ma la fame, si sa, viene mangiando e, nonostante il manto nevoso mi lasci forti dubbi sulle prestazioni della discesa, piano piano ingrano la marcia e, quando il bosco si apre in una solitaria radura, sono in maglietta convinto più che mai a raggiungere la vetta. In alto intanto diventa evidente che verremo schiaffeggiati da Eolo impegnato a sollevare turbini di neve mentre ora abbiamo altro a cui pensare: infatti, come fossimo entrati nella taverna dei giganti di Obelix, l’oste continua a portare piatti a nastro sotto forma di un ripido pendio intonso che sembra montato su un tapis roulant che viaggia nella nostra stessa direzione. Battiamo traccia credendo di mantenere un buon ritmo tanto che, quando l’inserviente pare aver alzato bandiera bianca, uno sguardo all’altimetro si trasforma in una di mazzata sui denti col malefico cuoco che esce dalla cucina insieme ad un succulento elefante alle olive! Il Denny attacca la pietanza continuando a scavare la trincea mentre io finisco di riprendere fiato dando e il cielo completa la sua metamorfosi. Quando infatti terminiamo la traversata verso sinistra per poi riprendere a salire, è come se si fosse rotto il bricco del latte e il contenuto si fosse sparso sulla volta celeste. Per di più siamo investiti dagli effetti dell’infame ventilatore di Eolo che soffia proprio nel verso opposto alla nostra marcia. Insomma, la gita si è ben presto trasformata nel canonico e pesante banchetto predisposto dalla più classica delle lotti con l’alpe. All’arrivo del vassoio con la famiglia di montoni alziamo bandiera bianca. Davanti a noi abbiamo un lungo pianoro e poi la cima sulla destra che ci guarda 400 metri più in alto, una distanza che in questo momento sembra siderale.

Così, ben prima del previsto, mi tocca accomodarmi sulla sdraio in riva al mare e iniziare a scendere: svaccato e lasciando solchi come fossi un aratro, con una visibilità non ottimale e la neve una miscellanea di dure lastre ventate, tratti farinosi e altri simili ad una granita rigelata, perdo rapidamente quota fino a superare il ripido pendio del tapis roulant. Qui forse potrei divertirmi ma oggi la sdraio rimane assettata nella posizione più orizzontale mentre incido curve come un principiante. Mi manca solo di scendere a spazza neve e poi la frittata sarebbe completa! All’imbocco del bosco optiamo per il quasi ignoto seguendo il corso del torrente e una vecchia traccia: l’alveo si stringe sempre più mentre scivoliamo sulle gobbe formate dai grossi macigni. Mi viene in mente la discesa dal Motto del Toro anche se qui le cose sono decisamente meno complicate eppure mi sento a disagio, incapace di controllare la situazione, di reagire con la giusta prontezza agli ostacoli che si parano davanti finchè l’anfratto si apre lasciando lo spazio alle case del vicino paese.


Cavallo Goloso


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