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ZASTAVA – CIMA DELL'AVERTA

sabato 24 e domenica 25 luglio ‘10


Il bambino pendola con un lento ma ripetuto dondolio, proprio non ne vuole sapere di stare fermo. Ho ben in mente le sue ciclopiche dimensioni: la sua larghezza abnorme è sproporzionata rispetto l’altezza. È tarchiato, come se la crescita gli fosse stata impedita e allora lui si fosse sviluppato sul piano orizzontale.

Quando me lo sono caricato temevo di stramazzare al suolo ma il suo peso, in fin dei conti, non è poi così eccessivo. E ora e lì con il suo rollio che si diverte ad essere portato verso l’alto. Anche Micol ha il suo bel da fare a trasportare il suo zaino, ma questo è il prezzo che si deve pagare per un week end con annesso pernottamento in tenda. La nostra meta è nuovamente la cima dell’Averta in Val di Predarossa: avevamo fatto un tentativo in giornata sabato scorso che però si era arenato in una semplice passeggiata e ora ci ritroviamo, carichi come muli, a ripercorrere lo stesso sentiero di pochi giorni fa. Oddio, più che sentiero, sarebbe corretto parlare di traccia e poi gande e prati ma tantè, prendiamo le cose come stanno e lentamente, schiacciati dai nostri carichi, guadagniamo quota.

Avevo vagamente individuato delle possibili zone dove piazzare la tenda, ma non ci avevo prestato particolare attenzione, così mi trovo a ripetere a quella santa donna della Micol che ci fermeremo sopra “quel” dosso. Solo che di dossi ne passano diversi prima che, finalmente, troviamo il luogo adatto: un bel praticello pianeggiante tra un paesaggio dominato dalle rocce e, a pochi metri, un piccolo torrentello. Insomma lo scenario ideale con vista sulle Orobie, i Corni Bruciati e, dietro una cresta, la cima seminascosta del Disgrazia.

Piazziamo quindi il nostro campo base attendendo l’ora della cena. Il menù prevede patatine, pizzoccheri e pancetta! Insomma, una cenetta coi fiocchi: il piatto caldo liofilizzato in fondo non è male anche se ci costringerà ad un lungo lavorio nel tentativo di ripulire a fondo la pentola.

Satolli e riappagati, sprofondiamo in un lungo sonno mentre personalmente cerco di evitare un fastidioso dossetto proprio sotto l’anca che mi costringe a dormire su un fianco o di traverso.

La domenica si presenta con un cielo terso e una temperatura piuttosto frizzante. Dopo la colazione a base di biscotti e nutella (gli zaini pesavano, ma non abbiamo certo lesinato nelle comodità!), ci attende la risalita fino alla base delle parete. Abbiamo alcune opzioni differenti e alla fine ci portiamo sotto Zastava: ho qualche dubbio sul tiro iniziale dopo il quale ne seguono tre più semplici e quindi gli ultimi due ancora impegnativi. Oramai son qui e non mi resta che iniziare il mio gioco. Supero bene, non dico elegantemente ma almeno decentemente, la placca tecnica e quindi sono alla sosta. Micol non è da meno e, appena ho finito di complimentarmi con lei, mi risponde: “Eh, ma è una placca: è facile!”. E siamo sul VII!

Galvanizzato dal risultato riprendo la scalata: una serie di strapiombini ci portano alla base di un tiro quasi di raccordo che supera la cengia mediana e così Micol ha l’occasione di provare l’ebbrezza della scalata su erba! Ancora un breve tiro e siamo all’inizio della quinta lunghezza, un bel diedro con una faccia strapiombante. Quando ne raggiungo il termine ho le braccia letteralmente disfate! Ho dovuto ricorrere alla risolutrice tecnica dello staffare per riuscire a piazzare un friend instabile, appendermi allo stesso per piazzarne un altro poco sopra e raggiungere lo spit successivo. Le braccia non rispondono più e davanti a me c’è solo il deserto delle protezioni fisse! Sono fuori dal diedro e da quello che sembra essere il tratto più impegnativo della lunghezza, ma le braccia versano proprio in uno stato pietoso. Alla fine desisto: abbandono una maglia rapida e mi calo.

Rientriamo al campo base, mi ricarico il fardello e riprendiamo la discesa. Dire che lo zaino è caricato male sarebbe limitante e un complimento per chi lo ha preparato: praticamente ce l’ho su di traverso, tutto caricato sulla spalla sinistra! Con l’utopica speranza di raggiungere l’auto in quelle pietose condizioni, inizio a scendere finché il grido di pietà della spalla mi costringe a fermarmi e organizzare decentemente il carico. Ora mi trovo un pachidermico obelisco che grava sulla schiena ma, se non altro, il peso è ben distribuito. Trotterellando come meglio permette il fardello, raggiungiamo finalmente il vasto pianone che anticipa il parcheggio; una scena d’altri tempi ci riporta ad un antico stile di vita: una contadina segnata dal tempo e da una vita all’aria aperta munge una vacca. È come un saluto a questo luogo e a questo week end vissuto come forse ora è comunemente raro provare.


Cavallo Goloso


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