TITA CHIAPPINI – CORNA CLEM
mercoledì 21 novembre ‘18
Inizio a fare le prove per quando sarò in pensione confidando che, alla prossima tornata elettorale, qualcuno proporrà i saldi della quota 100 così, siccome è meglio portarsi avanti, convinco il Gughi ad una levataccia estrema, attraversare 3 provincie per poi spararsi una via di 6 tiri.
Poi, una volta sbarcati dalla macchina e accolti dalla colonnina del termometro che non riesce a salire oltre quota 0, inizio a domandarmi se a breve faremo i baccalà in parete o direttamente i bastoncini Findus. L’unico modo per cercare di ritardare il processo è quindi quello di affrontare il più rapidamente possibile l’avvicinamento lungo un sentiero che traversa continuamente il crinale della montagna prima da una parte e poi dall’altra. Così, sufficientemente stufo di continuare ad andare di qua per poi tornare di là, ad un accenno di traccia che pare salire nel bosco, lascio il sentiero e mi infilo nell’intrico della vegetazione. Ovviamente il vago percorso dopo appena una manciata di metri si fonde tra alberi, rovi e macigni e noi iniziamo a vagare verso l’alto cercando di aprirci un varco finchè da dietro mi giunge l’arguta osservazione: “Mi sa che abbiamo perso il sentiero!”. Ottimo: ci mancava pure il socio sarcastico proprio quando sto lottando con l’ennesimo rovo che mi vuole rubare giacca e pantaloni!
All’attacco comunque alla fine in qualche modo ci arriviamo e, a quel punto, possiamo iniziare la lotta per cui ci siamo sparati 2 ore e mezza di auto. La prima lunghezza è un bell’antipasto, soprattutto quando cerco di rinviare la prima piastrina autocostruita del tiro, probabilmente forgiata direttamente da Hans Fiechtl: non c’è niente da fare, l’occhiello è troppo stretto e il moschettone non ne vuole sapere di entrare, fortuna vuole che ci sia spazio per un bel friendino nella fessurina a lato salvandomi così le caviglie da un possibile volo.
Sulla lunghezza seguente mi sento forte e su quella successiva una schiappa, tanto che sono quasi dell’idea di abbandonare la parete al suo destino. Sostanzialmente, dopo i primi metri scalati decentemente, quando la roccia si impenna verso l’alto, inizio a non capirci più nulla e alla fine mi ritrovo a maturare appeso ai fix senza avere la minima idea su come proseguire. Poi però mi ricordo di essere caiano: infilo il C3 giallo in una fessurina, lo carico, ci staffo e raggiungo la protezione successiva. Quando arrivo alla sosta sono distrutto fisicamente e psicologicamente. Mi viene voglia di gettare le doppie ma, sapendo di avere un paio di tiri “abbordabili”, proseguo nella lotta autolesionistica. Infatti poco sopra la sosta staffo ancora una volta e quando raggiungo la fine della lunghezza ho le braccia a pezzi, rotte e spaccate come non mai dopo un “semplice” 6a. Scatta l’orgoglio e la consapevolezza che, a lasciare la salita incompiuta, mi mangerei le mani e così, issata la baionetta, esco dalla trincea e proseguo la battaglia prima con un raffinato ed attento studio della placca alla Sherlock Holmes e poi risolvendo a vista l’ultimo tiro.
Cavallo Goloso
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