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TENTATIVO – TORRE CRISALVA

sabato 06 giugno ‘15


Torno sul luogo del misfatto, di fronte alla parete dove ho sperimentato l’efficacia dell’autosicura. Di fronte al nemico, oramai passata l’adrenalina della battaglia, il raziocinio ha il sopravvento e il “grande” volo si riduce ad un salto di soli 6 o 7 metri, nulla a che vedere con quello che la strizza mi aveva dato ad intendere! Ma non mi sono certo sobbarcato quasi due ore di marcia forzata riversando gran parte dei miei liquidi nelle trame della maglietta, solo per il gusto di misurare e soppesare quanto Newton fosse riuscito a tirarmi verso il basso, piuttosto voglio cocciutamente dimostrare allo scienziato che se all’andata ha avuto facile vittoria, al ritorno la partita finirà diversamente. L’esperienza comunque qualcosa insegna e, questa volta, non sono il solo ad osservare attentamente la roccia: mi carico quindi all’inverosimile di materiale e ritorno a mettere le mani sul duro e ipnotico elemento sotto l’attenta supervisione del Dani. Ma la spavalderia e l’audacia di due settimane fa hanno preso il largo lasciando il posto alla cocciuta testardaggine che mi sospinge verso l’alto. Il rintocco cadenzato del martello rompe così il silenzio mentre il chiodo non ne vuole minimamente sapere di entrare: provo con ogni fessura, buco e anfratto ma il risultato è sempre negativo; ogni volta incontro strutture cieche e il ferro, quando va bene, riesce ad entrare solo per metà. L’ostinazione è dura da battere ma, alla fine, alzo bandiera bianca e torno sui miei passi: per le mie capacità da lì non si passa e il sogno si infrange fragile contro la compattezza della placca.

Studiamo ancora la parete e, alla fine, mi lascio convincere dall’intuizione del Dani e riparto quindi alla volta della fessura sulla sinistra. L’assedio riprende: svergino la spaccatura ma il chiodo non entra completamente e, nonostante il sicuro friend subito sotto, non mi fido ad abbandonarmi totalmente al ferro. L’immagine dello stronzo che si sfila mi passa davanti in continuazione. Provo solo a scaricare il mio peso ma non riesco a trovare un posto dove mettere un altro chiodo; dovrei staffare, ma chi si fida? Alla fine ribatto: il fantasma della Fisarmonica aleggia sulle nostre teste.

Ma il Dani non si da minimamente per vinto: risale le corde, si fida del chiodo e ne piazza un secondo. Anche questo però resta sospeso a metà, indeciso se entrare o uscire dalla roccia. Lo tasta; ci si appende delicatamente e, dopo un altro infinito e duro lavoro di carpenteria, riesce a piazzarne un terzo; anche questo però non lavora al meglio: è un altro salto nel buio. Ma l’amico si fida e esce dal tratto più impegnativo; supera un breve tratto su roccia poco stabile vincendo una dura lotta di nervi finchè il martello canta ancora le sue note e la sosta del primo tiro prende forma.

È di nuovo il mio turno: la fessura sopra le nostre teste così attraente dal basso, si rivela ora un ostacolo eccessivamente impegnativo; mi sposto a destra e, superato lo spigoletto, trovo un diedrino, la nostra via verso l’alto. Supero la struttura e rapidamente sono alla placca che protegge l’evidente diedro individuato già dalla base. Ma le belle notizie terminano qui: un inconfondibile chiodo saluta beffardo il mio arrivo, segno che qualcuno ha già messo piede sulla cengia. Considerando però che non ci sono ulteriori segni di passaggio, mi convinco che forse si tratta di un altro tentativo e mi concentro su quanto si trova sopra la mia testa. La nuova difesa posta dalla parete è ben più impegnativa di quanto avessi immaginato e, per l’ennesima volta, devo lottare per cercare di piazzare un chiodo. Ancora una volta esco sconfitto: l’unica soluzione è recuperare il Dani, tanto più che inizio a soffrire per la carenza di chiodi e alzare bandiera bianca. Buttiamo la doppia e, tranquillo come un maiale al macello, mi lascio scivolare verso il basso mentre offriamo il nostro arrivederci al torrione.


Cavallo Goloso


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sabato 23 maggio ‘15


Ho imparato due, forse tre cose: la prima, che l’autosicura funziona (e per fortuna); la seconda, che probabilmente gli “knife blade” non vanno molto bene su calcare; la terza, che forse è meglio lasciare perdere di fare certe salite da solo e abbassare un po’ il tiro. Posso scrivere; alla fine, oltre ad una botta alle coste, ho qualche bruciante escoriazione ma poteva andarmi peggio. Certo, sarebbe potuto anche andare molto meglio se quello stronzo non fosse uscito! O se mi fossi attenuto ai piani iniziali. Ma quando, davanti ad un barattolo di Nutella, si presenta un’intera vasca di golosa crema, non riesco a resistere e mi ci tuffo completamente.

Sono ancora da solo: questa volta ho cercato un compagno ma, in fondo, non rimpiango di non averlo trovato. Le Parche insomma tessono ancora la loro rete o, forse, è solo questo maledetto mese di maggio. Salgo al Cainallo e, per non pagare i 2 euro del gratta e sosta, lascio l’auto nello spiazzo davanti al rifugio. La scelta si traduce in buoni 20 minuti aggiuntivi con il saccone che mi logora le spalle mentre l’ambizione vola alta: mi attendono solo quattro lunghezze, su una delle torri sopra il Bietti, ma la via dovrebbe essere quasi schiodata; un’avventura di non poco conto considerando che sono in compagnia solo dei miei pensieri!

Arrivo quindi in vista del rifugio e poi della torre ma, proprio là, la vasca di Nutella mi stuzzica la gola: un torrione più imponente, il più grosso della zona, mi strizza insistentemente l’occhiolino. La linea vista dal basso sembra troppo evidente e per di più su roccia apparentemente ottima: forse che le mie ricerche di terreno vergine siano terminate? Un’occhiata alla guida mi lascia intendere che sulla struttura passa solo una via, descritta con favolosi epiteti che promettono roccia da favola. Le premesse ci sono quindi tutte. Raggiungo il barattolo di Nutella, lascio il pesante compagno e salgo leggero alla piscina; la roccia è anche meglio di quanto sperassi. Viene voglia di gonfiare i braccioli e tuffarsi nella crema ma l’occhio è subito attratto da un segno inconfondibile: un vecchio chiodo arrugginito è un monito troppo evidente. Il cerchio del destino, nemmeno troppo lentamente, si sta chiudendo. Ma non demordo: giro lo sguardo e, con l’occhio dell’arrampicata moderna, non tardo a individuare una linea futurista, forse anche troppo per il sottoscritto solitario: la partenza c’è; alcuni buoni buchi sembrano portare là dove la parete si impenna. Da sotto, sembra anche di individuare dei punti dove martellare i chiodi ma, da solo, il richiamo di Newton sembra urlare troppo fortemente. Giro lo sguardo e il cerchio del destino si chiude definitivamente. La linea è decisamente evidente, più semplice della precedente ma sempre su roccia spaziale. Nulla da invidiare a Dieci Piani! Abbandono definitivamente l’idea originale e torno a recuperare i braccioli.

Sono un piccolo albero di Natale; muovo i primi passi e raggiungo il punto dove piazzare la sosta. Il martello batte la sua musica mentre maledico di non avere portato la mazzetta più pesante; l’operazione è lunga e logorante ma alla fine il chiodo è completamente dentro. Lo 0,4 e lo 0,5 completano la sosta. Blocco la corda e riprendo verso l’ignoto piazzando subito sopra un dado, un magnifico, salvifico cubetto metallico. Mi alzo lentamente alla base della placca soprastante; la roccia si impenna compattissima più di quanto potesse sembrare da sotto: salire diritti sembra un azzardo eccessivo; mi sposto lentamente a destra, sfruttando una piccola cengia ma così mi allontano dalla perfezione della linea e, oltretutto, la situazione non sembra migliorare. Torno indietro e provo ad individuare una soluzione; il rebus non tarda a sciogliersi: se quella corta fessurina potrà accogliere un chiodo, dovrei arrivare ad un buco e da li raggiungere una zona meno ripida. Questo, ovviamente, in teoria! Provo a infilare un maledetto knife blade e questo svergina la roccia senza difficoltà; poche martellate e il chiodo canta: veloce ed efficace, ottimo! Lo testo e sembra tenere. Il passo però è troppo duro, meglio passare al classico azzeramento e poi vedremo il da farsi. Mi appendo, mi muovo e l’infido stronzo in un attimo scivola via dalla fessura. Riesco solo a vedere saltare il vicino e insicuro C3 poi, una dozzina di metri più in basso, una botta arresta la caduta. Sono salvo e intero ma piuttosto dolorante e, per di più, faccio fatica a respirare. Gli attimi che seguono sono meccanici, compio azioni di cui non ho ricordo: mi calo, stacco il gri-gri e sistemo il C3 all’imbraco. Lo so perchè più tardi lo troverò lì. Mi sento debole: completamente da solo, sarebbe potuto finire peggio ma, effettivamente, anche meglio! Mi siedo a riordinare le idee e a riprendermi: forse ho superato un po’ troppo il limite dell’azzardo.

Passa mezz’ora abbondante prima che mi decida a tornare alla sosta: il dado ha retto e la sosta si è ribaltata; tutto ha funzionato tranne lo stronzo. Abbandono dado e chiodo collegati con un kevlar e poi mi calo sulla maglia rapida quindi inizio la mia lunga, patetica e barcollante discesa verso il Bietti. Ho insolitamente freddo e il cappuccio alzato della giacca a vento deve farmi apparire come un decrepito relitto che naviga verso il suo incerto destino. La strada per casa si allunga scavalcando un’infinità di vallette; cammino senza fermarmi perchè ogni passo mi avvicina al termine del supplizio e l’unico fotogramma che passa a ripetizione è la corda che si piega, diventa molle mentre la roccia saetta verso l’alto.


Cavallo Goloso


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