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NIEDERMANN – GROSS BIELENHORN

sabato 18 luglio ‘20


Che idea del c...! Diedro di m...! Ma perchè non me ne sono stato a casa? Guardo la struttura tra l’inorridito e l’incazzato. Una volta l’avrei salita senza troppi patemi mentre ora mi ritrovo ad ascoltare le mie braccia e capire quando arriverà il momento in cui la ghisa le farà diventare due blocchi di marmo. Per fortuna c’è qualche fix a pararmi il culo (e anche questo una volta non l’avrei mai pensato): devo andare avanti! Afferro la fessura (maledetta: ma non potevi essere bella squadrata?) e tiro, i piedi che spingono sulla faccia del diedro. Supero il passo e posso rifiatare. Ma lo stronzo (il diedro) continua: sale all’infinito verso l’alto e io ho già le mutande piene della sua stessa materia. Le ho riempite ancora prima di arrivare all’attacco, lungo il nevaio iniziale duro come il marmo e nel passare la terminale, tutto perchè i ramponi a lacci hanno deciso di ballare la samba sulle scarpe d’avvicinamento. O forse sono io che non sono capace di metterli.

Scendiamo dalla macchina e il Walter parte a manetta, io dietro e quindi il Marco a succhiare la scia. Poi non so come, il sottoscritto passa davanti e continua con quel ritmo forsennato che posso mantenere solo perchè siamo in piano. Praticamente il sentiero vola via in un batter d’occhio: mi sento in forma, pare che la corsetta settimanale riesca a mantenermi ad un buon livello di allenamento. Arriva il ghiacciaio e noi lo saliamo come se nulla fosse ignari che da lì a cinque minuti avremmo iniziato una tragicomica salita verso l’attacco. Tutto inizia dopo aver deciso di sfruttare le innovazioni della tecnica: forse però ci saremmo dovuti meglio informare sui passi fatti negli ultimi 100 anni, onde evitare di trovarci con 2 paia di “catenelle” da turista livignasco durante le feste di Natale e una rivisitazione in chiave recente del modello di ramponi di Eckenstein per altro nemmeno correttamente e preventivamente regolati sulle calzature! Fortuna vuole che il tecnologico Walter si sia procurato un innovativo alpenstock che si rivelerà attrezzo indispensabile per superare un tratto che alpinisti meno avventati non filerebbero nemmeno. Così proseguo in testa con il mio bel paio di ramponi a lacci acquistati per un’avventura che sarebbe morta 100 metri fuori da casa e, dietro, Walter e Marco con le loro catenelle da escursionista a St Moritz. Il nevaio si impenna un filo: per degli alpinisti seri, la cosa non desterebbe alcun problema, per noi inizia la pantomima. Uno dei ramponi decide che sia il momento di sfilarsi dalla scarpa dando il via al mio dramma personale: ogni pochi passi uno dei due ferri inizierà ripetutamente a sfuggire da sotto i piedi costringendomi a continue soste su un pendio che si fa sempre più ripido ma che ad un caiano fresco di corso base non farebbe nemmeno un baffo. Dietro Walter usa l’alpenstock come si faceva prima che Grivel aggiungesse le punte anteriori ai ramponi: scava coppe e coppelle, unico modo per salire questa “cascata” di neve pressata e gelata. Sotto la terminale ci viene il lampo di genio e dotiamo l’alpinista con i ramponi dell’alpenstock: viene fuori un essere invincibile, un mostro potenzialmente capace di superare qualsiasi parete ghiacciata. A noi basta solo passare la terminale, cosa che già si rivelerà una ragguardevole impresa, probabilmente degna di menzione al Piolet d’Or degli imbecilli. Così armato, proseguo quindi verso l’alto scavando con la picca delle tacche per piedi e mani fino a riuscire ad afferrare il bordo del nevaio: dalla parte opposta c’è il baratro. Mi metto a cavalcioni sulla lama di neve e poi, sfruttando l’immancabile effetto elastico delle gambe del buon caiano, raggiungo la parete rocciosa. Il rampone ovviamente va da una parte e il piede dall’altra. Finisco l’ultima scarica di “adrenalina” nelle mutande e poi mi butto di là, finalmente totalmente sulla cara vecchia roccia.

Si dice che il buongiorno si vede dal mattino e infatti, dopo aver preso il comando della cordata anche sulla roccia per la mia dose di adrenalina arrampicatoria, mi ritrovo sull’infingardo diedro a sputare sangue e chissà cos’altro prima di raggiungere sano e salvo l’agognata e insperata sosta. A questo punto il peggio è passato (o almeno così voglio sperare) e, invece, anche la lunghezza seguente mi offre un po’ di pepe in eccesso ma almeno vedo la luce in fondo al tunnel visto che tra poco passerò la conduzione al Walter. Questo però, al momento di lanciarsi all’assalto baionetta innestata, adduce la scusa della congiunzione di Giove con gli anelli di Saturno e, mentre il Marco continua a dirigere dalle retrovie, mi ritrovo ancora con gli stoppini in mano. A dirla tutta, da un lato non mi dispiace troppo di dover ancora balzare fuori dalla trincea e così finisce che mi trovo a fare a vista (nel senso che vedo molto bene i rinvii da tirare) il tiro con la fessurina scorbutica in partenza per poi utilizzare quasi ogni trucco caiano (leggi staffate su cordino) per venire a capo dell’ultima lunghezza che, finalmente, ci deposita sulla cima della parete.


Cavallo Goloso


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domenica 27 luglio ‘14


Ricordo che alle elementari mi è stato insegnato che dopo giugno c’è luglio, agosto, settembre e ottobre. Ma, evidentemente, dev’essere che ho la mente annebbiata perchè qui siamo già in pieno novembre: acqua, pioggia, diluvio, grigio, coperto, nebbia. Praticamente non ha quasi più senso guardare le previsioni, tanto lo spettacolo è sempre lo stesso!

Nonostante tutto però sono cocciuto: mi alzo poco dopo le 4 in mezzo all’oceano e con in mano un trapano sperando di non fare un buco nell’acqua! Sono di nuovo con Riccardo, questa volta, causa estate non pervenuta, con una meta forse meno ambiziosa dell’anno scorso ma comunque ragguardevole. Così ci avviamo verso il Gottardo sperando che al di là del tunnel la situazione sia diversa. Dev’essere la mia giornata fortunata perchè a nord il tempo è cambiato: nuvole basse a fior di strada che porta ancora evidenti i segni di una piovuta appena terminata! Poco male: noi puntiamo al Furka e, incrociando le dita, forse lì saremo al cospetto del sole. Saliamo e siamo nella nebbia. Ad Andermatt le nuvole regnano sovrane e, quando scendiamo dall’auto, la condensa è tale che sembra quasi piovere. Non diciamo nulla, dividiamo il materiale e, proprio come si insegna ad ogni corso caiano, partiamo per il sentiero! La speranza è che la situazione migliori e, soprattutto, che la parete sia asciutta: è come andare in un altoforno e credere di trovare un po’ di frescura ma, d’altra parte, è bello vivere nei sogni! Comunque, a dire il vero, non prendiamo il sentiero: troppo sbatta scendere quindici metri sull’asfalto quando si ha una vaga traccia che sale direttamente dal parcheggio. Peccato sia il classico sentiero per capre che ben presto svanisce nel nulla e, soprattutto, rimane dall’altra parte del torrente! Saliamo a naso, a tentoni nella nebbia seguendo la massima pendenza e cercando di convincerci che sbatteremo contro il rifugio. Ma invece che con la costruzione, ci scontriamo con un sentiero che taglia la nostra rotta perpendicolarmente: forse è il caso di iniziare a prendere scelte sensate e così iniziamo a seguirlo. Sono dell’idea che siamo finiti fuori strada, che il rifugio dev’essere chissà dove e infatti, proprio quando sono sul punto di fare dietro front, ci troviamo davanti la moderna costruzione! Fin qui è fatta, ora resta il bello: trovare l’attacco. Forse le nuvole si alzeranno, forse il sole riuscirà a rompere la massa grigia. Forse, forse, forse... titubanza e caianesimo non possono andare a braccetto! Abbiamo fatto 30 e ora facciamo 31 e quindi riprendiamo a camminare lungo il sentiero sassoso. Al primo bivio, decidiamo che la nostra meta debba essere a sinistra; il ghiacciaio intanto si avvicina sempre di più finchè finalmente ce lo troviamo sotto i piedi. Non deve mancare molto, tutto sembra quadrare con la relazione anche se, quando il velo grigio ha osato alzare i suoi lembi, il panorama ha rivelato muraglioni verticali e inespugnabili. Continuiamo comunque a salire convinti che non debba mancare molto alla meta ma l’orologio scorre troppo in avanti e l’altimetro sale eccessivamente rispetto quanto indicato dalla relazione. Ci auto-convinciamo finchè il piccolo circo glaciale sbatte definitivamente contro la roccia che butta fuori acqua da tutti i pori: oggi di scalare non se ne parla proprio! Con la coda tra le gambe e il peso della sconfitta a gravare sul macigno che ciondola sulle spalle, non ci resta che scivolare sui nostri passi, fare un salto al rifugio dove intuiamo che la via dev’essere un po’ più a destra rispetto la nostra linea di salita e quindi ributtarci nella nebbia verso l’auto. Chiaramente imbocchiamo lo stesso sentiero della salita che, evidentemente, non deve coincidere con quello che dovrebbe portarci all’auto, così ci troviamo a vagare come due impavidi scozzesi nella bruma. Evitate le scivolate sui viscidi sassi granitici, scampato il pericolo di navigare senza meta come la nave fantasma, finalmente balziamo come predoni sul nastro d’asfalto pronti a riprendere la strada del sud.


Cavallo Goloso


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