LITTLE CHAMONIX – GLETSCHHORN
sabato 14 maggio ‘22
- Oh cazzo! - Mi volto verso il basso, alla base della parete da dove mi è giunta l’imprecazione e vedo lo zainetto con dentro acqua e piumino zampettare e poi rotolare verso valle. Rimbalza un po’ qua e un po’ là, poi inizia a scivolare e quindi finalmente si ferma qualche decina di metri sotto l’esterrefatto Cece. Scendere quei pochi metri sarebbe una mezza follia o un’impresa titanica: certamente la neve non reggerebbe il peso e l’amico si troverebbe a nuotare nella massa fredda per poi probabilmente collassare estenuato. La sola cosa logica da fare è una: abbandonare la salita e tornarsene con la coda tra le gambe. Infatti noi ce ne freghiamo e optiamo per l’altra soluzione, quella che potrebbe essere l’anticamera per un epico tragico epilogo caiano: fregarsene dello zaino e portare a termine la salita. Il dilemma non è tanto legato alla mancanza del vestiario che, visto il caldo fotonico da ferragosto in Sicilia, difficilmente potrà crearci qualche problema, quanto al fatto che non avremo con noi nulla per calmare l’arsura della gola. E io inizio già ad avere sete. Sarà forse perchè sulla prima lunghezza ho quasi subito dovuto estrarre dal cilindro qualche mossa degna dei ristabilimenti sui boulder o, più probabilmente, perchè per oltre due ore ho fatto come il cero pasquale: colato sotto il martellante picchiare dei raggi solari.
Eppure il preambolo è stato di tutto altro tono a partire dal messaggio di Cece che ridesta quell’istinto caiano che la mia idea iniziale di andare in Valsassina a fare l’FF cerca invano di soffocare: - Ho un’ideuzza: fare una via zona Furka... - Praticamente è un invito a scofanarmi un vassoio di pasticcini, non ci vuole un genio a fare 2+2: andare da quelle parti significa solo una cosa, avvicinamento con gli sci e poi arrampicata su un granito e in un ambiente che pare il Bianco! Ogni programma nella valle ai piedi delle Grigne si squaglia come il gelato nel forno o, per stare più in tema, come il sottoscritto e Cece sull’avvicinamento. Così ci troviamo al Melillo: afferro la brioche con la mano-badile e il dolce sembra sparire tra le dita prima di finire inghiottita a fare compagnia ai biscotti della colazione. Strano, la ricordavo più grossa, sarà forse che la crisi abbia mietuto vittime sul noto gigantismo della pasticceria? La carica comunque è sufficiente per giocare a Tetris (o se vogliamo Campo Minato a seconda di quanti sassi finiscono sotto gli sci) lungo il primo tratto di salita con movimenti a papera per evitare che le solette graffino sulle rocce o scivolino troppo sull’erba ingiallita che si apre la strada tra le chiazze di neve. Poi arriva la piana sotto l’Albert-Heim-hütte e, almeno l’ambiente, torna a ricordare l’inverno. I legni scivolano da una parte mentre dall’altra rotola un rivolo d’acqua che diventa sempre più un fiume sulla coltre nevosa e noi andiamo ad infilarci nella valle sotto la parete del Galenstock con il canale della morte certa che finisce tra le grinfie di una cornice chilometrica, un altro goloso invito a nozze per l’aquila che mi batte nel petto. Noi però abbiamo già i nostri grattacapi mentre mi chiedo se non fosse stato meglio portarsi un paio di pantaloncini: teniamo duro e arriviamo alla base della piramide, scoviamo l’attacco e poi mi ritrovo in sosta mentre lo zainetto decide che sia meglio farsi una scivolata sul pendio e restarsene al sole sulla coltre nevosa. Noi lo salutiamo, gli chiederemmo qualche foto se avesse la macchina e ci avviamo verso l’alto. Prima la fessura, poi arriva il diedro perfetto, l’avanzo di una forma di formaggio dopo il taglio del negoziante. Mi pappo il tutto quasi senza patema perchè in fondo la pioggia di fix è la manna del codardo e così, superata l’ultima lunghezza, ci troviamo sulla vetta di un satellite del Tacul. Ah no: siamo in Svizzera, niente mastodontico re delle Alpi a osservarci mentre fingiamo di fare i caiani estremi ma soprattutto niente funivia-Dracula a spennarci il portafogli.
Cavallo Goloso
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