EXCALIBUR – WENDENSTÖCKE
sabato 07 novembre ‘15
Finalmente abbiamo l’elsa in pugno: chiamiamo a raccolta tutte le nostre forze finchè la lama luccicante e affilata si sfila dalla roccia e fendenti liberatori saettano in un insolito e caldo cielo autunnale. Insomma, abbiamo raggiunto la vittoria dopo 6 anni passati con il naso all’insù o macinando altro genere di caianate ma con la testa che ogni tanto volava su quelle placche scolpite come un’opera di Fidia.
E pensare che sarei andato ben volentieri da un’altra parte, a chiudere un altro tentativo lasciato a metà sulle pareti del Sasso di Sengg ma alla fine mi ritrovo, ancora una volta, a puntare le mie attenzioni alle rocce elvetiche. Oramai sembra un’abitudine partire ad orari improponibili anche se ora la squadra è formata da 4 elementi; mentre quindi io e Cece ci dedicheremo ad Excalibur, unico motivo per cui sono riuscito a digerire il mancato assalto alle pareti lecchesi, Marco e Silvia punteranno a Zambo. L’imprevisto però è sempre dietro l’angolo o, sarebbe meglio dire, dietro la curva: usciti infatti dal Gottardo e lanciati i cavalli verso la salita del Susten, l’avviso che il passo è già chiuso ci colpisce come un fulmine a ciel sereno. Quando però mi impunto, sono peggio di un mulo e quindi, considerando come unica meta il mitico Wenden, propongo la circumnavigazione di mezzo Oberland anche se poi tutto diventa più semplice visto che da lì a poco più di mezz’ora, la strada verrà riaperta. Ne approfittiamo quindi per sistemare gli zaini ma non certo le idee su quello che stiamo per andare a fare: sarà forse per scaramanzia, ma preferisco tenermi lontano dal pensiero di quella lavagna grigia nei confronti della quale, la volta prima, il timore riverenziale aveva avuto la meglio sui nostri animi costringendoci a levare le tende senza neanche averci provato. Fatto sta che non accenno minimamente ai miei dubbi né, tanto meno, all’idea che, se mai dovessimo concludere la via e dovessi aver superato da secondo il tiro, mi piacerebbe ripeterlo da capocordata. Nella mia testa infatti tutte le difficoltà sembrano ridursi a quell’unica liscia lunghezza e a nulla sembrano valere i commenti del Michi che mi aveva messo in guardia sul fatto che in realtà la via non molli mai.
Ovviamente siamo affamati e voraci, tanto che già sul sentiero iniziale prendiamo il classico abbaglio e risaliamo diritti per il pendio prativo ignorando bellamente che la traccia corra più a sinistra. Con il cuore che batte all’impazzata, più per caso che per volontà, torniamo poi sul percorso corretto e da lì proseguiamo verso lo zoccolo dove si inizia a fare sul serio! Il primo ostacolo passa tutto sommato con meno problemi della prima volta (forse perchè supero la prima lunghezza con la corda dall’alto!) anche se, su un passo del secondo tiro, mi trovo costretto ad una rapida barata: cosa ne sarà quando saremo più avanti? Il pensiero mi destabilizza, preferisco quindi non badare alla voce della coscienza e proseguire come se nulla fosse.
La parete finalmente si alza davanti ai nostri occhi; fa un caldo decisamente anomalo, quasi estivo, peccato solo che la lunghezza delle giornate resti fedele al periodo astronomico. Il primo tiro mi pare decisamente meno cattivo di quanto non affiorasse dal mare dei miei ricordi. Raggiungere il primo spit non sembra un’impresa così mortale: possibile che l’altra volta la mia testa fosse tanto annebbiata? o sarà forse perchè dovrà essere Cece a guadagnarselo?
Fatto sta che siamo ben determinati e nessuno leva dubbi sulla fattibilità così lasciamo la cengia e ci buttiamo nella lotta vera e propria. Cece supera le prime prese, si sposta lungo la sottile cornice e raggiunge il primo spit. Le caviglie sono salve! Ora la parete si impenna, liscia quasi come fosse stata passata da una mola e solo alcune sottili linguette verticali permettono di proseguire verso l’alto. Spalmando delicatamente le scarpette sulla roccia, il passo chiave viene quindi superato; resta solo un tratto ancora impegnativo e con spit più distanziati prima di poter affermare di aver vinto il tiro. A quel punto tocca al sottoscritto. Seguendo la corda che scende dalla sosta, riesco a chiudere la lunghezza in libera restando esterrefatto per alcuni passi decisamente aleatori, per la roccia fantasmagorica e per la maestria del capocordata. A questo punto quindi, mi sento quasi la vittoria in tasca: se abbiamo sotto le chiappe il tiro sulla carta più duro, cosa potrà impedirci di raggiungere la vetta? Certo, il mio contributo questa volta sarà più limitato ma questo fa parte del gioco dello scalare in alternato. Non posso certo immaginare che entrambe le supposizioni si riveleranno decisamente errate!
Intanto, pur convinto che le maggiori difficoltà siano superate, lascio la sosta con un certo velato timore riverenziale: mi alzo lungo la parete superando una breve fessura e poi un passo atletico. A quel punto devo salire lungo una specie di pilastrino che mi fa approdare ad un dado bloccato in una boccola di spit. Sono nel nulla infinito, non ho più la minima idea di dove debba salire: mi guardo intorno ma di spit nemmeno l’ombra; il mare mosso calcareo si alza e diffonde da ogni parte ma capire quale sia quella giusta resta un mistero insolubile. Non mi perdo d’animo e scruto ancora alla ricerca della protezione successiva finchè un vecchio e logoro cordino sulla sinistra richiama la mia attenzione. Mi muovo in quella direzione e quindi raggiungo la sosta.
Il tiro successivo è il classico esempio di come una sottovalutata considerazione della via possa portare a disastrose convinzioni. Cece parte, supera un passo atletico e poi si infila lungo un diedro inaspettatamente esigente e atletico. Anche solo affrontandolo da secondo, posso ben immaginarmi l’estenuante lotta combattuta dall’amico! La via insomma inizia neanche troppo lentamente a succhiarci le energie fisiche e mentali. Un po’ come fossimo due candele con la fiammella ridente sopra la testa, ci stiamo consumando fino a ridurci a dei miseri stoppini e solo le due lunghezze successive riescono a rallentare la voracità della fiamma. Ci troviamo quindi alla base del terzultimo tiro, quello che, almeno sulla carta, potrebbe ancora darci del filo da torcere. L’entusiasmo è però già alle stelle e forse è solo grazie a quello e alla forte determinazione che, dopo aver sputato e esalato gli ultimi spruzzi di volontà, riuscirò a raggiungere la sosta finale. Dunque è arrivato il mio turno. Lascio la sosta e senza problemi significativi, rinvio il primo spit e, poco oltre, un cordino in nylon infilato in una tipica clessidra artificiale. Rimonto il gradino e mi ritrovo quindi comodamente a studiare il tratto successivo. Di spit o possibilità di proteggermi non ne vedo nemmeno l’ombra mentre il successivo cordone mi fa il verso 7 o 8 metri più in alto. La situazione insomma non pare per nulla delle più allegre ma, almeno al momento, sono ancora in una posizione tutto sommato sicura. Studio quindi il passaggio e, dopo un errato tentativo, parto alla volta di quella che sembra essere una buona presa. Di fatto tutto è nelle mani delle suole delle scarpe: mi convinco che la sinistra debba per forza tenere, spingo sul piede e guadagno una discreta tacca. Un’altra spinta sui piedi e dovrei riuscire a guadagnare altri centimetri ma il piede, diminuita la pressione sulla roccia, mi tradisce! Il subitaneo attimo di panico non ha fortunatamente alcuna conseguenza: resto infatti saldo con la presa, potenza delle dita diventate come tenaglie, evitando di tornare a trovare Cece. A quel punto però la nebbia inizia a calare: cosa succederebbe se dovessi prendere il volo? Dove finirei? Perchè ho questa maledetta capacità di infilarmi in queste situazioni? In realtà la risposta è semplice: perchè sono caiano! Tuttavia, come una nuvola passeggera sospinta da un turbine di vento feroce, il dubbio arrivato velocemente si allontana con altrettanta foga. Insomma, non mi faccio avvolgere dalla bruma e continuo imperterrito a salire: è come se si fosse attivato un bottone che mi impedisce di tornare indietro, anche perchè, in tale situazione, non saprei nemmeno come fare a scendere al cordone! Così, sospinto anche dalle incitazioni di Cece, riesco ad agguantare una buona zanca, la classica presa della salvezza, l’oasi in un mare di deserto. Riesco a piazzare un Camalot 0.4 di dubbia tenuta e poi mi rimetto a studiare il successivo e spero ultimo passo impegnativo. Sopra la testa ho una specie di graspola per la destra mentre a sinistra sale una piccola e stretta fessurina dove forse potrebbe starci un nut che però io, ovviamente, non ho. Non devo fare pasticci coi piedi e fidarmi nelle dita come fossero dei cliff. Mi viene anche l’idea fugace di piazzare un gancio metallico ma sarebbe solo un dispendio di energie: devo muovermi in fretta! Decido che la graspola sia la presa giusta. Guardo i piedi, li muovo e afferro la fessurina obliqua: a quel punto un rapido movimento mi permette di afferrare il cordone giallo che penzola dalla clessidra. Credo che quel pezzo di nylon resterà ben impresso nella mia mente! Ma non mi sento ancora pienamente al sicuro: rinforzo la protezione con un mio kevlar e quindi mi muovo verso lo spit sulla sinistra. Solo quando riesco a rinviarlo mi libero definitivamente di ogni tensione con un ironico “ahaaa! spit!”. A quel punto nulla mi può fermare: salgo alla successiva protezione e da lì, con la testa imballata, risolvo l’uscita alla sosta tirando il rinvio. Due tiri, solo due tiri ci separano dalla vittoria finale ma sono praticamente due formalità che finalmente ci depositano sulla vetta del torrione. La spada luccicante brilla in cielo mentre il sole si tuffa dietro le montagne all’orizzonte. Cos’altro potrebbe andare storto? Solo la prima doppia! Mi calo nel vuoto avvicinandomi sempre di più al groviglio di corde sottostante finchè questo arriva a bloccarsi sotto il discensore. Mi sento un pivello ma, soprattutto, non riesco a levarmi di dosso l’idea di precipitare verso valle. Sono quasi più impanicato di quanto non fossi sul run out: riesco ad appendermi ad uno spit e quindi provo a scaricare il peso dalla doppia con accorgimenti tanto assurdi quanto inutili finchè non vedo l’altro spit subito sopra. Con una mossa atletica che richiama le ultime energie nervose, lo agguanto e riesco a liberare le corde dal mio peso. A quel punto, Cece può finalmente scendere e prendere il comando delle calate ma l’odioso e stupido inconveniente ci ha fatto perdere un sacco di tempo prezioso. Arriviamo sotto lo zoccolo ancora con la luce e, preparati gli zaini alla rinfusa, ci buttiamo il più velocemente possibile lungo le ripide e erbose roccette sottostanti. Ben presto l’oscurità viene a farci visita e trovare il giusto percorso in quel dedalo già piuttosto misterioso diventa ancora più complicato, fortuna vuole che Silvia abbia insistito nel lasciarci la sua frontale! Così, quando oramai la strada del passo è già stata chiusa, raggiungiamo la tanto sospirata auto ma il ritardo non può certo intaccare la nostra spavalderia perchè ora siamo cavalieri!
Cavallo Goloso
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sabato 12 settembre ’09
Un tonfo secco e sono nuovamente con i piedi per terra. Non ho subito alcuna ripercussione fisica,
semplicemente ho le orecchie basse! Con la stessa forza con cui ci aveva sollevato, il Wenden ci ha anche riportato alla cruda e dura realtà del nostro V+ e A0 .
Risaliamo lungo il delicato sentiero d’avvicinamento senza lasciarci perdere l’occasione di percorrere una variante che ci porta sopra i resti di un nevaio.
Sfruttando lo spazio tra la coltre gelata e la parete rocciosa a monte, Cece scova uno stretto pertugio mentre io e Colo lo seguiamo passando sotto il tetto
di neve gelata. Ritornati sulla traccia, lentamente saliamo verso la parete fino a raggiungere lo zoccolo alla base della parete dove corre Excalibur.
I primi fotogrammi dell’avventura mi vedono protagonista volontario mentre delicatamente mi alzo su una roccia incredibile. Mi allontano dalla sosta fino
a raggiungere un passo che non riesco a risolvere. La situazione è piuttosto spiacevole, benchè la posizione non sia fortunatamente scomoda: non sono in grado
di proseguire e l'ultima protezione brilla due o tre metri più in basso sulla destra. Sono fermo nella stessa posizione da alcuni minuti: non mi sto godendo
il panorama, ma solo lo spit in basso e la distanza “siderale” tra me e lui. Immagino il volo con relativo pendolo nel tentativo di tornare sui mie passi e
non posso non maledire la mia sete di protagonismo che mi ha gettato in questa tragicomica situazione. Poi, fulminato da un’intuizione degna di Sherlock Holmes,
individuo sulla sinistra del mio naso la soluzione rappresentata da una piccola tacca che fino a quel momento si divertiva a giocare a nascondino sulla lavagna
calcarea. Raggiungo la seguente protezione dove mi viene proposto l’ennesimo cubo di Rubik della giornata a cui poi ne seguiranno altri. Senza ricorrere a biechi
trucchi di contraffazione delle facce del dado (leggi staffate, tirate di rinvio e quant’altro), riesco, con molta pazienza dei soci che si congelano pochi metri
più in basso, a risolvere anche questo enigmatico problema fino a raggiungere la sosta.
Il secondo tiro dello zoccolo è tecnicamente più difficile, ma meglio protetto pur lasciando il grado obbligato.
Sono nuovamente fermo con un grosso punto di domanda che dondola sulla mia testa mentre mi chiedo perché non mi sia dedicato al giardinaggio,
hobby monotono ma certamente meno ricco di incognite. Dopo un paio di tentativi, riesco a superare anche questo passaggio fino a raggiungere la fatidica cengia.
Teoricamente il mio lavoro è prossimo al termine: mi manca un altro tiro (il primo di Excalibur) per poi lasciare la conduzione ai miei amici.
La via è già occupata da una coppia di svizzeri che ci aveva superato durante il prologo sullo zoccolo, così ho il tempo per gustare le mirabolanti
peripezie del funambolo che risale la ripida muraglia. Scovo le protezioni sulla parete scoprendo che la loro abbondanza è inversamente proporzionale
ai dollari di Bill Gates. Sono messo di fronte alle mie incompetenze in fatto d’arrampicata e la cosa non mi fa certo piacere: il probabile volo prima
di raggiungere la protezione equivarrebbe quasi sicuramente ad un mese di stampelle. Insomma, gioco le carte della codardia e mi tiro fuori dal gioco;
la palla passa a Cece e a Colo, ma anche questi, dopo un attimo d’esitazione, lasciano cadere il guanto della sfida.
Forse Antonio, il camoscio monocorna che ci gironzola intorno da alcuni minuti, potrebbe risolvere il nostro problema, ma non avendo con noi un imbraco
per il cornuto, decidiamo di buttare le doppie. Gesto reale e metaforico al tempo stesso: la ritirata, oltre a decretare un sonoro arrivederci alla parete
svizzera, delinea un sicuro futuro nelle falesie del lecchese e del comasco nel speriamo non troppo vano tentativo di imparare finalmente ad arrampicare!
Così, senza nemmeno aver tentato di sfiorare l’elsa di Excalibur, ritorniamo a valle attendendo il giorno in cui le magie di Merlino ci consentiranno di
estrarre la spada dalla roccia.
Cavallo Goloso
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