VIA NORMALE – CENGALO
lunedì 20, martedì 21 luglio ‘15
Chiamatemi pure Ermanno Toro o, se preferite, Herman Bull! Certo, non avrò ripetuto l’exploit del conquistatore del Nanga Parbat sulla Cassin al Badile ma, nel mio piccolo mi ci sono avvicinato, almeno dal punto di vista geografico! Le sofferenze maggiori? Certamente alle chiappe perché, per risparmiare sul peso, non mi sono portato i pantaloncini della bici! E poi le condizioni meteo con temperature quasi a 40 gradi e tassi d’umidità da fare paura anche ad un indio della foresta amazzonica non hanno certo giovato all’impresa che però alla fine sono riuscito a completare in circa 27 ore di movimento effettivo spalmate su due giornate dal gusto pane e Nutella. In realtà l’idea nasce con l’ambizione di raggiungere il Bernina ma, grazie ad un momento di sanità mentale, considero il progetto irrealizzabile e mi trovo così a sorvolare con lo sguardo la catena fino a fermarmi di fianco al Badile, giusto per avvicinarmi anche fisicamente a Herman. Lascio perdere la muraglia granitica anche se per un momento avevo pensato ad un concatenamento folle e mi concentro sul vicino (e poco più alto!) Cengalo. Mentalmente tutto è pronto anche se la salita in bici resta il grosso punto interrogativo e quindi devo solo preparare la bici; recupero il portapacchi del Manduino riuscendo a montarlo con quella maledetta soluzione di fortuna che mi darà gli unici problemi meccanici della scampagnata. Pronti? Via! Alle 7:30 sono in strada; alle 7:40 so di aver dimenticato la relazione! Torno indietro? Manco a pensarci, troppo sbattimento. In qualche modo domani risolverò il problema. Il lago scorre mentre lo zaino, con un equipaggiamento ridotto al minimo, se ne sta comodamente sdraiato sul mezzo. Picozzino leggero e un paio di ramponi semiautomatici sono gli unici attrezzi tecnici anche se non so se sarò in grado di bloccarli alle scarpe basse ma anche questo problema lo risolverò domani! E poi, immancabili, fornelletto e materassino, perchè devo essere completamente autosufficiente (e soprattutto devo preservare il portafogli!). A mezzogiorno sono ad Ardenno: l’ora ideale per spararsi quasi 17km di salita! Il calvario ha inizio; mi fermo alle stazioni della via crucis ma ne riduco il numero mentre alcuni tratti li supero a piedi perchè le chiappe iniziano a urlare pietà. Finalmente verso le 3 parcheggio la bici nella foresta; una breve dormita e dopo mezz’ora inizia la marcia meno sofferente di quanto potessi sperare. Poco prima del pianone, il tempo inizia a girare storto: comincia a piovere, prima a gocce sottili e quasi piacevoli, poi più insistentemente; naufragio in vista? Non saprei; mi guardo intorno, poco lontano sembra ci sia un riparo ma conto di trovarne un altro al pianone. Quando arriva sto piano? Maledizione: la pioggia aumenta! Poi, finalmente, il sentiero smette di salire: in alto, a destra, trovo un masso che fa al caso mio; non è un reggia, ci sto a mala pena seduto però per il momento può essere sufficiente. Gli elementi si scatenano: scrosci d’acqua violenti si riversano sulla vallata e la prospettiva di dover passare la notte qui si fa sempre più concreta. Aguzzo lo sguardo: forse in fondo alla piana ci sono dei posti migliori ma al momento non se ne parla di abbandonare questo tetto granitico. Spiove e poi smette. Tento la sorte e punto ad uno degli altri rifugi. Sono praticamente deciso a passare la notte qui mandando così quasi certamente all’aria la grande impresa ma in mio soccorso arriva Micol. O meglio: l’assenza di segnale del cellulare. So bene che alla Gianetti l’aggeggio prende e io devo mandare il messaggio. La soluzione quindi è solo una: caricarmi lo zaino e puntare al rifugio! Gli ultimi metri sono una specie di patetico e strascicato trascinamento di piedi portato avanti solo perchè so di essere praticamente arrivato. Alle 8 la tortura termina e, solo all’idea di non dover più sfacchinare (per oggi!), mi sento quasi rinvigorito. Alle 9, dopo l’ormai classico risotto, mi infilo nel sacco a pelo: la mia prima fetta di pane e Nutella è finita, domani mi spetta la seconda.
La sveglia suona alle 4 ma ho abbandonato Morfeo già da una decina di minuti quando una coppia ha lasciato il rifugio. Sono indeciso sul da farsi: le gambe sono intorpidite, devo lottare tra la pigrizia che mi porterebbe verso valle e la sete di gloria caiana. Alla fine mi decido a dare una chance alla seconda: mi sfilo dal sacco a pelo, lentamente bevo il tè e alle 4:30 sono in cammino verso la vetta. La frontale rischiara le gande: tutto sommato non mi sto muovendo male e le luci di chi mi precede già poco sotto la parete mi fanno ben sperare: la meta è forse più vicina di quanto sembri! Raggiungo e supero velocemente la placca di II, il tratto più tecnico della salita mentre orologio e altimetro sembrano dalla mia parte. Alla sella incontro letteralmente la chiappe del Balatti (!) venuto per la via degli Inglesi; saluto la consorte e mi allontano su per la traccia. Sento le ali ai piedi e la vetta in pugno: supero l’ultima catena e poi salgo verso la calotta nevosa della cima. Ramponi e picca restano pesanti nello zaino finchè davanti a me l’unica cosa che sale è la croce. Sono in cima! Cazzo, sono in vetta! Metà dell’opera è compiuta, la boa l’ho raggiunta e sono passate solo 2 ore da quando ho lasciato la Gianetti e la fetta di pane con Nutella è ancora praticamente integra. Scattate le foto di rito, giro i tacchi e mi butto sulla discesa. Alla placca incontro altri alpinisti: effettivamente l’orario è più opportuno per la salita che per la discesa ma, oltre alla scampagnata di altri 1700 metri, mi aspettano un centinaio di chilometri di pedalata!
Scendere a valle è una specie di pacchia visto lo zaino insolitamente leggero: alle 8:30 sono spaparanzato davanti al rifugio; poco dopo mi levo il grosso dubbio se la bici sia ancora là dove l’ho lasciata e dopo le 11 sono già in coda al market a san Martino con l’acquolina in bocca per il panino al formaggio che mi scofaneró da lì a pochi minuti.
Finalmente la bici può saettare veloce verso il fondovalle: pennello le curve pensando al fratello motociclista e alle mie linee certamente ben più aggraziate mentre mi avvicino come un razzo al mio prossimo futuro. Fino al lago posso stuzzicare la sorte in bici ma da lì le alternative diventano due; o prendo il treno da Colico facendo così crollare il progetto e gettando le basi del rimorso o scendo verso Menaggio togliendomi praticamente ogni possibilità di utilizzare un mezzo pubblico per ritornare a casa. Mi sento bene e, ovviamente, opto per la seconda ipotesi.
A Musso il malefico portapacchi mi abbandona definitivamente: avevo già perso una vite in salita, ora sembra che i pezzetti di legno con cui ho rattoppato la magagna non riescano più a fare effetto. L’unica è caricarsi lo zaino sulle spalle e continuare a pedalare!
Prima di Carate ricevo la mazzata finale di cui già ero ben conscio figurandomela come un patibolo da diversi chilometri: la strada sale, dolcemente ma lungamente, come se non volesse dare una tregua. Sento il traguardo vicino, una manciata di chilometri e l’orologio è sempre dalla mia. Non mi faccio problemi: scendo dal mezzo e lo spingo. Il mio Stelvio scorre lentamente sotto le suole delle scarpe finchè il nastro d’asfalto torna a farsi piatto e poi a scendere; ingegnere maledetto, perchè non hai sbancato la collina e creato un bel piano? Ora mi lascio trasportare pedalando solo dove effettivamente necessario. Ho la bocca riarsa ma anche la nausea per i troppi liquidi ingollati: ho avuto un consumo da far sembrare una F1 un’utilitaria ma, al contempo, con un serbatoio tipo Hemmental! La scia si snoda oramai da Cernobbio al Cengalo! È tutta una questione di testa e alla fine questa ha la meglio; 2000, 1500, 1000, 500: vedo casa; sono al portone, scendo di sella: ce l’ho fatta, semplicemente ce l’ho fatta!
Cavallo Goloso
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