CASCATA DI ZOCCA – VAL MALENCO
domenica 03 febbraio ‘19
Se la vecchia fattoria dello zio Tobia aveva tanti animali, io almeno ne posso personificare cinque. Il primo e quello che mi sta più a genio quando sono davanti al barattolo di Nutella, a un vassoio di pasticcini o ad una confezione di gelato è il maiale. Il secondo è il cavallo, nomignolo affibbiatomi anni or sono, seguito a ruota dal mulo per la testardaggine con cui porto avanti certi progetti finchè gli altri due non prendono il sopravvento: rispettivamente pecora e coniglio a seconda del grado di codardia che riesco a esprimere durante la mie avventure caiane.
Oggi i preamboli per liberare gli ultimi due abitanti della fattoria ci sono tutti: portare il Gabri che non ha mai fatto cascate a provare a scalare un flusso gelato mentre il pericolo valanghe è salito fino al livello 4. Facciamo allora un giro per vedere come sia la Centrale di san Giuseppe nonostante il bel canale che la sovrasta e, alla fine, prendiamo armi e bagagli e ci avviamo verso l’obiettivo. Il primo problema è capire come diavolo arrivare all’attacco perchè la guida, sebbene sia una Treccani delle cascate, continua a indicare che l’accesso è come per la cascata precedente. Così, sfogliando a ritroso una pagina dietro l’altra, finisce che esco dalla val Malenco e approdo in val Fontana! Decisamente non ci siamo e l’unica soluzione è tentare con san Google: da qualche parte ci dev’essere il sentiero che scende al Mallero ma, quella parte, è esattamente nella direzione opposta rispetto quella che prendiamo col risultato che iniziamo a scavare una trincea nella neve per raggiungere il fiume a fianco del quale scopriamo una traccia battuta dalle motoslitte: da qualche parte allora ci dev’essere un modo più comodo rispetto ad una nuotata nella farina, elementare Watson!
Attraversato il Mallero dopo averle provate tutte per farci un bagno, ci troviamo finalmente ai piedi della cascata, pronti a violentarla in stile direttissima a goccia d’acqua ma il ghiaccio è a tratti una granita e poi suona come un tamburo: sono tranquillo come all’ora di filosofia quando il professore scorreva il dito sul registro alla ricerca della vittima sacrificale. Il Gabri mi consiglia allora di provare più a destra: supero un saltino introducendo il boulder anche su cascate, scalcio un po’ di qua e un po’ di là e poi mi proteggo. Quel chiodo mi pare buono come appendiabiti e sopra siamo ancora in Sicilia con una fresca granita cui farei volentieri a meno. Inizio a belare e torno indietro.
Il Gabri a quel punto se ne esce che si potrebbe tentare una cascata poco più a valle: sento qualcosa che cerca disperatamente di uscire dalle chiappe, come un treno in corsa fuori da una galleria mentre penso a quel muro ghiacciato che ho intravisto in alto ma poi, saggiamente, concludo che, alla sua base, vedremo il da farsi.
Il primo tiro è tremendamente verticale solo che oramai ho buttato le carte in tavola e non posso più mascherare il bluff così mi tocca prendere le picche e partire. La cascata piscia e io ho di nuovo il treno che spinge: siamo un’ottima coppia di incontinenti; per fortuna che il Gabri se ne sta un po’ lontano! Piazzo la seconda vite e intanto mi faccio la doccia mentre sopra un piccolo ripiano dovrebbe permettermi di rifiatare. Ho voglia di ficcare un altro chiodo ma la posizione in cui mi trovo è decisamente assurda: mi sembra di essere tornato ai tempi in cui andavo a Scarenna col caschetto e il mezzo barcaiolo alla pianta. Così non va: sistemo le picche (cioè faccio in modo che tutta la becca penetri nel ghiaccio morbido), spero che i ramponi tengano e poi mi alzo al gradino. Salvo! Ancora una volta sono salvo. O forse sono caduto dalla padella nella brace? Altra vite, un rampone scivola ma mi avvinghio alla picca e poi esco dal tratto impegnativo rimandando così lo scontro con la gravità. La lunghezza seguente è più semplice ma questo non significa che là in basso, dove non batte il sole, qualcosa cerchi di farsi strada. Poi arrivo sotto il salto finale: lo guardo, conto le viti a disposizione e mi lascio tentare. Piazzo quindi la protezione ma mi pare poco solida: dovrei forse fare sosta ma dove? Mi guardo a sinistra e la vedo, l’agognata gabbia del coniglio è la che mi strizza l’occhio sotto forma di un albero sottile. Quello è il mio obiettivo: l’ultimo tiro può anche andare a farsi fottere. Traverso e sono di fianco al vegetale che mi ricorda la sosta prima della Serpe su Kundalini. Recupero il Gabri e poi la pecora-coniglio dichiara che oltre non si va e che da lì dovremo scendere. Non so se il Gabri si sia chiesto qualcosa sulla tenuta delle radici, fatto sta che, preparata la calata, ci ritroviamo alla sosta sottostante e da lì comodamente a pochi metri dal fiume.
Cavallo Goloso
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